IL PONTE DELLE SPIE
Continuando a indagare la storia americana, Steven Spielberg si immerge con Il ponte delle spie nel clima di sospetto e paranoia della Guerra Fredda, uscendone con un thriller che funziona come una macchina a orologeria, narrativamente perfetto e potente nel suo afflato umanista.
Nemici che salvano il mondo
Brooklyn, 1957. In piena Guerra Fredda, il pittore Rudolf Abel viene arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Le accuse nei suoi confronti sembrano schiaccianti, ma il magistrato si preoccupa comunque che l’uomo abbia un’adeguata difesa, perché si mostri al mondo il garantismo del sistema statunitense. La scelta dell’avvocato cade su James B. Donovan, legale con scarsa esperienza in cause penali, ma con un forte senso di giustizia. Poco dopo, un aereo spia americano precipita in territorio russo, e il tenente Francis Gary Powers viene fatto prigioniero. Abel, detenuto in un carcere americano, potrebbe rappresentare una valida merce di scambio per il rilascio del militare. La CIA incarica così proprio Donovan di gestire il negoziato.
Radiografia della storia
Dopo Lincoln, Steven Spielberg continua a interrogarsi sulla storia americana, traendo stavolta spunto da un evento di cronaca della Guerra Fredda. Portando sullo schermo una sceneggiatura scritta da Matt Charman insieme a Joel ed Ethan Coen, il regista dirige un thriller pienamente – e brillantemente – calato nell’atmosfera di quell’epoca, nel clima di sospetto e paranoia che caratterizzava gli anni in questione. Il ponte delle spie racconta, con lucidità ed equilibrio, la Guerra Fredda, l’atmosfera che la caratterizzò e la percezione, penetrata a fondo nella vita della gente, di una catastrofe imminente; ma riesce a parlare anche dell’oggi, di un clima di insicurezza e fobia generalizzata per l’altro che vediamo ripetersi immutato.
Quello di Spielberg è un cinema che in questo Il ponte delle spie racconta (di nuovo) l’America e le sue contraddizioni, le azioni di un paese che più volte, nella sua storia, per sopravvivere ha snaturato l’afflato democratico e inclusivo che fu alla base della sua nascita. Ed è un cinema che di nuovo esalta l’azione di uomini coraggiosi, che (come in Lincoln) riescono a fare del compromesso, anche spregiudicato, la propria arma più efficace. Cinema impegnato e profondamente umanista, quindi, che non dimentica lo spettacolo (tutta la scena iniziale è magistrale), e che ha raggiunto nel corso degli anni una limpidezza di sguardo, e un controllo di tutte le sue componenti, assolutamente encomiabili.
L’umanesimo spielberghiano
Dall’intro hitchcockiana, splendidamente diretta, all’immersione totale nel clima di fobia (e follia) della Guerra Fredda, fino al gelo di una Berlino Est la cui ostilità non spaventa il Tom Hanks protagonista, Il ponte delle spie è una rappresentazione avvincente, cinefila nei suoi riferimenti eppure credibile e umanissima, di una nazione e di un preciso periodo storico. Il mestiere del Rudolf Abel interpretato da Mark Rylance, pittore specializzato in ritratti, diventa metafora potente della capacità di guardare gli uomini nella loro complessità, nei loro chiaroscuri, astraendoli dal loro schieramento in un mondo – allora come oggi – rigidamente diviso. Una capacità che accomuna i due protagonisti, e che diviene chiave per la loro comprensione reciproca, ribadendo al contempo l’umanesimo di un cinema che, da Schindler’s List a Salvate il soldato Ryan, ha continuato a cantare le lodi di persone che “salvando una vita salvano il mondo”, al di fuori e al di sopra delle loro appartenenze. Un afflato umanista che si esprime in una costruzione cinematografica lucida e forte, che illumina ogni personaggio con la consapevolezza della sua visione, e che mostra un controllo pressoché totale della macchina-cinema.
Per molti, ma (per fortuna) non per tutti
Anche in un’opera dalla costruzione (narrativa ed estetica) quasi perfetta come questo Il ponte delle spie si può rilevare comunque qualche sbavatura: tra queste, alcune sottolineature di regia inutili, tra i quali includeremmo un dettaglio piuttosto pacchiano, nel parallelismo che propone, nei minuti finali. Una piccola caduta di stile, forse dazio da pagare inevitabile al carattere hollywoodiano del progetto, che stride con l’equilibrio e la lucidità mostrati dal film per tutta la sua durata. Tra i “difetti” (virgolette d’obbligo) possiamo poi rilevare il fatto che l’America più conservatrice, e i suoi omologhi europei, quelli che ora guardano con sospetto qualsiasi uomo con la pelle più scura – così come facevano prima con chiunque sembrasse originario dell’Europa dell’Est – farebbero bene a stare lontani da questo film. Una raccomandazione di cui probabilmente non c’era neanche bisogno, per un pubblico che comunque un autore come Spielberg (popolare, ma assolutamente coerente nel suo modo di proporre cinema) non si è mai sognato in alcun modo di blandire.
Scheda
Titolo originale: Bridge of Spies
Regia: Steven Spielberg
Paese/anno: Stati Uniti, Germania / 2015
Durata: 142’
Genere: Drammatico, Spionaggio, Thriller
Cast: Jesse Plemons, Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Scott Shepherd, Domenick Lombardozzi, Austin Stowell, Billy Magnussen, Joshua Harto, Peter McRobbie, Will Rogers, Eve Hewson, Michael Gaston, Sebastian Koch, Stephen Kunken, Alan Alda, Dakin Matthews, Mikhail Gorevoy
Sceneggiatura: Joel Coen, Matt Charman, Ethan Coen
Fotografia: Janusz Kaminski
Montaggio: Michael Kahn
Musiche: Thomas Newman
Produttore: Kristie Macosko Krieger, Steven Spielberg, Marc Platt
Casa di Produzione: Amblin Entertainment, Fox 2000 Pictures, Studio Babelsberg, Marc Platt Productions, Participant Media, DreamWorks SKG, Reliance Entertainment, Touchstone Pictures
Distribuzione: 20th Century Fox
Data di uscita: 16/12/2015