LA MEMORIA DELL’ACQUA
Riflettendo sul passato recente del suo paese, sulle speranze del governo di Salvador Allende e i lutti che hanno visto il passaggio alla dittatura, fino alle incertezze del presente, Patricio Guzmán dirige con La memoria dell’acqua un documentario suggestivo, in cui la natura si fa muta testimone di un mondo umano che non vuole darle (e darsi) pace.
Memoria trasparente
Cile, sulla costa della Patagonia occidentale. In fondo al mare viene rinvenuta una rotaia, con attaccato un bottone di madreperla: è la muta testimonianza di uno dei desaparecidos di Villa Grimaldi, a Santiago, uccisi e poi gettati in mare dal regime di Pinochet. Un bottone di madreperla, in tutto e per tutto simile, fu anche l’emblema della “civilizzazione” dell’indio Jimmy Button: prelevato dai colonizzatori inglesi nell’800, portato alla corte della regina e sottoposto a un forzato processo di sradicamento. Una vicenda che si inserisce nella più ampia tragedia dei Selknams, popolazione nativa che fu oggetto di una sistematica opera di sterminio. Tra le due vicende, un filo rosso fatto di violenza, sopraffazione e annientamento dei più deboli. Testimone muto e dolente, l’elemento acquatico, ma anche gli incontaminati paesaggi naturali di una terra che continua a non conoscere pace.
Prima che cineasta, Patricio Guzmán è da sempre divulgatore della storia del suo paese. Una storia fatta di lutti e sollevazioni, slanci di speranza e tragedie, che ha visto il regista de La memoria dell’acqua costretto a emigrare nel 1973, dopo il golpe che costò la vita al presidente Salvador Allende. Un’attività svolta con gli strumenti del cinema, iniziata tra il 1975 e il 1979 con la trilogia de La battaglia del Cile, poi proseguita lungo un quarantennio di carriera. Ora, il regista cileno porta sullo schermo il secondo episodio di quello che è un dittico (ma è ipotizzabile la realizzazione di un terzo capitolo) incentrato sul binomio bellezza/morte. Se nel precedente Nostalgia della luce era infatti il deserto di Atacama, nell’estremo nord del paese, a fare da testimone ai crimini del regime, ora ci si sposta nella Patagonia occidentale, sullo sfondo incontaminato e selvaggio che vide prima lo sterminio dei Selknams, poi la muta eliminazione dei desaparecidos torturati e uccisi a Santiago.
Due vicende parallele e legate da un filo conduttore di violenza e sopraffazione, testimoniate dalle fredde acque della costa del sud cileno: habitat privilegiato delle tribù Selknams, da diecimila anni in simbiosi con un contesto naturale apparentemente ostile all’uomo. Uno spazio capace di mutare e mutarsi, ma anche di mantenere traccia dei drammi che in esso hanno avuto luogo. Le immagini catturate dalla macchina da presa di Guzmàn ne La memoria dell’acqua, ad alternare il fascino atemporale dei paesaggi, il sempiterno ciclo delle stagioni, e le testimonianze dirette e indirette dei massacri che vi si consumarono, compongono un affresco composito e potente: un risultato che ha visto il regista ottenere, nel corso dell’ultima Berlinale, il riconoscimento dell’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura.
Guzmán prosegue ne La memoria dell’acqua il discorso sulla storia del suo paese con coerenza, alternando il rigore della ricostruzione al lirismo dei paesaggi, la purezza dello sguardo non contaminato dalla civiltà (quello dell’indio Jimmy Button prima della sua “civilizzazione”) al resoconto dello stupro di una terra, e dello sradicamento dei suoi abitanti. Difficile non restare affascinati dalla forza evocativa di luoghi che si fanno essi stessi racconto, resistenti e malleabili alla presenza umana, alternati in modo straniante al resoconto di due drammi (paralleli) che vi avrebbero lasciato una traccia indelebile. La feconda alternanza tra il vibrante resoconto della cronaca e il fascino puro e non mediato, a un passo dall’astrazione, delle scenografie naturali, rendono il film di Guzmán un prodotto prezioso e dall’immediato magnetismo visivo.
A tratti, La memoria dell’acqua eccede forse nei simbolismi, andando a proporre suggestioni (i pianeti, la cosmologia, il legame tra le antiche credenze sulle anime dei dipartiti e le ricerche astronomiche) che restano un po’ slegate dal contesto della narrazione. A ciò, va aggiunta l’ovvia considerazione per cui chi ami esclusivamente il cinema narrativo (ma anche una forma di documentario più classica e compatta, che non faccia appello a una ricerca sull’immagine e sulla sua valenza simbolica) farebbe meglio a stare lontano da quest’opera.
Scheda
Titolo originale: El botón de nácar
Regia: Patricio Guzmán
Paese/anno: Francia, Spagna, Cile, Svizzera / 2015
Durata: 82’
Genere: Documentario
Cast: Cristina, Ema Malig, Gabriel Salazar Vergara, Gabriela Paterito, Martín Calderón, Patricio Guzmán, Raúl Zurita
Sceneggiatura: Patricio Guzmán
Fotografia: Katell Djian
Montaggio: Patricio Guzmán, Emmanuelle Joly
Musiche: Hughes Maréchal, Miguel Miranda, José Miguel Tobar
Produttore: Marisa Fernández Armenteros, Eva Garrido, Fernando Lataste, Jaume Roures, Renate Sachse, Bruno Bettati
Casa di Produzione: Instituto de la Cinematografía y de las Artes Audiovisuales (ICAA), Programa Ibermedia, SCAM, France Télévisions, The Sundance Institute, Ciné+, Atacama Productions, Consejo Nacional de la Cultura y las Artes, Centre National du Cinéma et de L’image Animée (CNC), Valdivia Film, Westdeutscher Rundfunk (WDR), Mediapro, Radio Télévision Suisse (RTS), France 3 Cinéma, Generalitat de Catalunya – Departament de Cultura
Distribuzione: I Wonder Pictures
Data di uscita: 28/04/2016