DOGMAN
Con Dogman, racconto filmato di uno dei delitti più shockanti che la storia criminale recente ricordi, Matteo Garrone va oltre il mero fatto di cronaca, facendo una cruda disamina sulla natura umana, in una relazione asimmetrica e malata.
Periferia astratta
Nell’estrema periferia romana, in un quartiere lambito dal mare, vive Marcello, un uomo mite che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo negozio, un salone di toelettatura per cani, e la cura della figlioletta Sofia, nata da un matrimonio finito male. L’uomo subisce le continue angherie di Simone, un violento ex pugile che spadroneggia nel quartiere, terrorizzandone gli abitanti. L’ambigua amicizia/sudditanza che lega i due raggiunge il suo culmine quando Simone coinvolge Marcello in un’azione criminale, che porta il secondo in carcere, lasciando libero e incensurato l’ex pugile. Un anno dopo, scontata la pena, reietto dalla comunità e trovatosi davanti al rifiuto dell’ex sodale di corrispondergli il dovuto, Marcello progetta un’implacabile vendetta.
Il dramma e lo sguardo d’autore
Nel 2018, a ormai un trentennio da quello che la storia criminale ricorda come “il delitto del Canaro”, il cinema dedica ben due film al macabro caso che vide vittima l’ex pugile Giancarlo Ricci, ucciso e massacrato dall’ex compare/vittima Pietro De Negri, nel quartiere romano della Magliana. Una corrispondenza curiosa, quella che ha visto la contemporanea produzione del thriller Rabbia furiosa – Er canaro di Sergio Stivaletti (atteso nelle sale per il 7 giugno) e di questo Dogman di Matteo Garrone, uscito in contemporanea con la proiezione all’ultimo Festival di Cannes: l’impeto ruspante del “genere” (almeno stando alla clip del film di Stivaletti, vista nel corso dell’ultimo Fantafestival) contrapposto al rigore di un regista che porta avanti, nelle forme di una ballata insieme violenta e astratta, il suo personale discorso sui rapporti umani.
In effetti, in questa sua nuova opera Garrone punta innanzitutto ad astrarre i dettagli del fatto di cronaca (preso come mero punto di partenza) dalla materia della rappresentazione, facendo di quest’ultima un emblema, una disamina quasi clinica di una relazione asimmetrica e malata, sviscerata dall’interno e seguita fino ai suoi estremi sviluppi. La periferia romana che fa da teatro a Dogman è un non luogo imprecisato, un pugno di case e negozi lambiti da un mare quasi sempre fuori fuoco, un claustrofobico agglomerato in cui i protagonisti restano perennemente incastrati (le due fughe/vacanze del personaggio interpretato da Marcello Fonte hanno quasi la consistenza del sogno). Uno scenario polveroso e astratto, quasi da spaghetti western (con un pugno di case e botteghe e un bar/saloon) in cui uno spietato bandito terrorizza gli abitanti. E in cui a fare giustizia sarà un vendicatore più che mai improvvisato.
Un saggio teorico e violento
Così, dopo la colta rilettura delle storie di Basile nel suo Il racconto dei racconti, Garrone torna in Dogman a trattare un soggetto contemporaneo, ma nel contempo non tradisce la poetica che porta avanti fin dai tempi de L’imbalsamatore: quella di una concretezza/fisicità (a essere in primo piano sono di nuovo dei corpi, entrambi martirizzati, assurti a emblema di un discorso estetico) sovrapposta alla cruda e spassionata disamina della natura umana, da saggista dell’anima che trova puntuali ricadute del suo teorema nella materia delle relazioni tra esseri umani. L’astrazione dello spazio in cui il dramma ha luogo (fotografato dai grigi e dai neri di Nicolai Brüel) dà ancora maggior risalto agli eventi, che gradualmente, in una sovrapposizione che non diviene mai adesione spassionata a un singolo punto di vista, si confondono con lo sguardo sempre più deragliato e sofferente del protagonista, carnefice quasi suo malgrado.
La catarsi negata
Affrontando un soggetto per sua natura spinoso, che si prestava in egual modo a suggestioni da revenge movie d’oltreoceano come a possibili sortite post neorealiste, Garrone tiene dritta la barra del suo discorso cinematografico, sfumando i contorni di luoghi e oggetti, facendo un uso intelligente ed espressivo del fuori fuoco, rappresentando la periferia romana come un non luogo dalla consistenza liquida e avvolgente, su cui far risaltare in modo quasi doloroso i suoi personaggi. In un dramma come Dogman, molto è demandato all’abilità dei due interpreti principali (Marcello Fonte ed Edoardo Pesce, entrambi poco noti al grande pubblico), ma anche a una sceneggiatura rigorosa, il cui crescendo ineluttabile (ma quasi impercettibile nel modo in cui delinea le progressive increspature del rapporto – malato ma a suo modo, per i tre quarti di film, quasi “rassicurante” – tra i due protagonisti) accompagna lo spettatore fino all’inevitabile violenza finale. Violenza che tuttavia nega la catarsi, com’era facile immaginare per chiunque abbia familiarità coi film del regista romano: la sua analisi dell’animo dei due protagonisti resta al di qua dell’adesione empatica, mentre lo sguardo si allarga sovente al microcosmo comunitario del quartiere periferico, esplorandone le dinamiche con un occhio quasi sociologico. La sequenza finale, in cui la concretezza dell’atto violento si lega di nuovo (con un effetto esteticamente notevole) all’astrazione e alla fuga onirica, trova (di nuovo) proprio in questo tipo di sguardo una sua importante componente.
A Dogman si può imputare probabilmente solo qualche lungaggine di troppo nella sua seconda parte (specie nella frazione concernente il rapporto del protagonista con sua figlia) oltre a una generale “freddezza” che tuttavia non rappresenta un limite se non per i detrattori del regista. Nella sua disamina di corpi e anime in perenne conflitto, Garrone è quasi un Cronenberg meno esplicito, che osserva i suoi personaggi da fuori, avvicinandosi solo di tanto in tanto, e quel tanto che basta a meglio delinearne pensieri, scontri e nevrosi. Il parallelo uomo/bestia, qui in particolare, ha un portato “teorico” tale da rendere il film quasi una sorta di saggio per immagini: un’impostazione che probabilmente non avvicinerà di molto chi già non si sentisse particolarmente coinvolto dalla poetica del regista, ma che esprime certo una sua, ammirevole, coerenza.
Scheda
Titolo originale: Dogman
Regia: Matteo Garrone
Paese/anno: Francia, Italia / 2018
Durata: 102’
Genere: Drammatico
Cast: Edoardo Pesce, Francesco Acquaroli, Alida Baldari Calabria, Aniello Arena, Gianluca Gobbi, Marcello Fonte, Adamo Dionisi, Nunzia Schiano
Sceneggiatura: Massimo Gaudioso, Ugo Chiti, Matteo Garrone
Fotografia: Nicolaj Brüel
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Michele Braga
Produttore: Matteo Garrone, Jeremy Thomas, Jean Labadie, Paolo Del Brocco, Alessio Lazzareschi
Casa di Produzione: Rai Cinema, Le Pacte, Archimede
Distribuzione: 01 Distribution
Data di uscita: 17/05/2018
Film che nonostante manifesti una devianza dai reali fatti di cronaca, rimane purtuttavia un importante documento moderno di quella realtà pasoliniana tanto amata e irraggiungibile. Visione consigliata, comunque. Voto: 7.2