LE INVISIBILI
Al suo terzo lungometraggio, Louis-Julien Petit continua a percorrere con Le invisibili la strada del cinema sociale, confezionando una commedia al femminile di marca corale, all'insegna di un naturalismo non privo di empatia.
Strade visibili
Continua a percorrere la strada del cinema sociale, il francese Louis-Julien Petit, concludendo con questo Le invisibili un’ideale trilogia iniziata coi precedenti Discount (2014) e Carole Matthieu (2016). Lo fa, il regista trentacinquenne, adottando ancora una volta il registro della commedia, come nel suo esordio del 2014; e non avendo paura a guardare, in particolare, al cinema britannico, a quel filone più attento alla rappresentazione del mondo proletario (Ken Loach su tutti) filtrato attraverso lo sguardo dissacrante e sornione di alcuni suoi epigoni vecchi e nuovi (Full Monty, Pride). Lo fa, soprattutto, moltiplicando i punti di vista e frammentando il racconto, cercando di offrire uno sguardo sfaccettato (ma ricco di humour) su un mondo normalmente fuori dai riflettori mediatici: quello del sottoproletariato femminile di provincia, in questo caso gravitante intorno a un centro di accoglienza diurno, l’Envol, trovatosi da un giorno all’altro in procinto di chiusura. Quando le donne senzatetto assistite dal centro si ritrovano improvvisamente per strada, prive di un’alternativa praticabile, le due assistenti sociali che le seguivano hanno un’idea: creare un laboratorio autogestito dalle ex ospiti, in cui queste potranno mettere a frutto le proprie attitudini personali, e nel contempo “vendersi” sul mercato del lavoro.
È inizialmente un po’ faticoso, entrare nel mondo di questo Le invisibili, volutamente frammentato, multifonico, vitale e senza filtri come l’agire dei suoi personaggi (interpretati in gran parte da donne prese dalla strada, le cui storie hanno parzialmente ispirato quelle presenti nel film). Il regista vuole cercare di offrire uno sguardo il più possibile omnicomprensivo sul microcosmo di ospiti e assistenti sociali, rappresentando un corpo sociale che, nel suo complesso, possa valere più della somma delle sue singole parti: un mondo chiuso ma non autoreferenziale, che si misura dolorosamente, giorno dopo giorno, con una realtà circostante a volte paradossale, spesso spietata. Una rappresentazione che contempla anche il punto di vista di chi, da quel mondo, ha continuato per tutta la vita a entrare e uscire, nell’illusione di un’aspirazione alla stabilità regolarmente frustrata; ma anche quello di chi sembra volerci restare, in quel ghetto autoimposto, senza altre pretese, privo della volontà (o forse degli strumenti) per sperare in un altro futuro. Un futuro che, invece, il grosso delle ex ospiti dell’Envol prendono in mano con ruspante concretezza, spinte dalla determinazione delle due volontarie (che hanno i volti di Audrey Lamy e Corinne Masiero), sfidando istituzioni e forze di polizia; e ribadendo, nel contempo, quel concetto di solidarietà di classe che si misura qui nel concreto, nell’asprezza delle situazioni condivise.
Il collage di volti, storie, inciampi e risalite che il film mette insieme trova una sua forma (e una direzione coerente all’interno della sceneggiatura) solo quando l’azione poliziesca contro l’accampamento delle donne fa salire la temperatura emotiva del racconto. A questo punto, uno script finora un po’ incerto sulla direzione da prendere sembra trovare una più coerente chiave di lettura, mentre le singole storie raccontate iniziano finalmente a prendere forma in una narrazione più organica. Una narrazione sempre polifonica, ma attraversata trasversalmente da uno sguardo naturalistico quanto ricco di empatia, che fa emergere l’humour in modo quasi casuale; non c’è (quasi) mai bisogno di ricercare la gag o l’interazione grottesca, laddove la dura quotidianità delle donne offre spunti a volontà in tal senso. Spunti catturati dalla macchina da presa di Petit con un taglio di regia minimale, ancorato a un realismo senza filtri (coerente con la recitazione delle interpreti esordienti), che si appoggia a un uso molto parco e controllato del commento sonoro; solo a tratti la regia si apre a soluzioni visivamente più accattivanti e quasi liriche (come nella sequenza dell’apertura al pubblico del laboratorio autogestito), mantenendo ben dritta la barra della rappresentazione naturalistica. Una costruzione in cui i proclami e la retorica barricadera non trovano praticamente spazio, in favore di un senso di “militanza” reso visibile dal quotidiano delle protagoniste.
Risulta un po’ più debole, questo Le invisibili, solo quando cerca – in modo intermittente e timido – di mettere in scena anche il privato delle due volontarie, schiacciato dalla coralità del racconto, inevitabilmente posto in secondo piano anche nell’attenzione dello spettatore. La cifra da “socialismo di strada” del film (frutto di un libro intitolato Sur la route des invisibles: Femmes dans la rue, scritto dalla documentarista Claire Lajeunie) si dipana al meglio proprio laddove la strada viene direttamente rappresentata, con quello sguardo privo di filtri che accomuna il regista e le sue interpreti. Sguardo che nel finale si colora (finalmente) di un sano vigore militante – tradotto più nello sberleffo che nell’urlo da comizio – a ricordare che la lotta non si chiude certo con lo scorrere dei titoli di coda. Anzi.
Scheda
Titolo originale: Les Invisibles
Regia: Louis-Julien Petit
Paese/anno: Francia / 2018
Durata: 102’
Genere: Commedia, Drammatico
Cast: Audrey Lamy, Noémie Lvovsky, Corinne Masiero, Sarah Suco, Adolpha Van Meerhaeghe, Bérangère Toural, Déborah Lukumuena, Khoukha Boukherbache, Laetitia Grigy, Marie-Christine Descheemaker, Patricia Guery, Patricia Mouchon
Sceneggiatura: Louis-Julien Petit, Marion Doussot, Claire Lajeunie
Fotografia: David Chambille
Montaggio: Nathan Delannoy, Antoine Vareille
Musiche: Laurent Perez del Mar
Produttore: Liza Benguigui
Casa di Produzione: Apollo Films, Filmalac, France 3 Cinéma, Pictanovo, Elemiah
Distribuzione: Teodora Film
Data di uscita: 18/04/2019