THE KAMAGASAKI CAULDRON WAR
di Leo Sato
Presentato in concorso alla 55a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, The Kamagasaki Cauldron War è un notevole esempio di racconto del reale filtrato attraverso un’ottica grottesca eppure straordinariamente empatica: un esordio di grande spessore per l’ex documentarista Leo Sato.
Un calderone più che mai vitale
Il racconto della realtà, variamente declinata, al cinema può prendere diverse strade. Una di queste, non la più facile e agevole, ma certo tra le più stimolanti, è quella praticata da questo The Kamagasaki Cauldron War, esordio nel lungometraggio di finzione del regista Leo Sato, presentato in concorso alla 55a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Uno splendido 16mm, deliziosamente fuori dal tempo – come i personaggi e gli ambienti che il film mette in scena – con un 1.33:1 che imprigiona gli attori (quasi tutti non professionisti) fisicamente e metaforicamente, è il tramite per raccontare un mondo, un microcosmo di miseria, espedienti, vitalità e voglia di resistere nonostante tutto, incastonato in uno dei principali centri urbani del Giappone. Kamagasaki, quartiere degradato di Osaka popolato da prostitute, lavoratori a giornata e delinquenti vari fin dalla Seconda Guerra Mondiale, è un luogo a sé, con leggi proprie. Le autorità locali, d’accordo con gli speculatori edilizi, vorrebbero raderlo al suolo per farne un centro di attrazione commerciale, ma gli abitanti, a loro modo, resistono. Tra questi, un borseggiatore, una prostituta che sogna di scappare e un ragazzino che ha appena perso il padre; al centro delle loro vicende, il furto di un calderone rituale appartenente alla yakuza locale, e la prevista successione alla testa di quest’ultima.
Si vede tutto, nel film, il background documentaristico di Leo Sato, si avverte la fascinazione per la geografia sociale e umana che The Kamagasaki Cauldron War mette in scena, rappresentata con rispetto e aderenza quasi antropologica, ma anche notevole empatia. Alla qualità naturalistica delle immagini, che giustappongono il microcosmo autosufficiente del quartiere al mondo “altro” che preme da fuori – con l’intenzione di annullarne la storia e gli individui – si accompagna un tono narrativo grottesco, sempre sopra le righe; un tono fatto di trovate estemporanee, di piccoli incontri ed episodi assemblati, di virate surreali, che compongono tuttavia un affresco di sorprendente coerenza. L’umanità raccontata dal regista non ha modo né tempo di farsi avanguardia politica, non ha gli strumenti per una presa di coscienza che le è stata negata dalla storia, decennio dopo decennio: la lettura di Marx da parte del protagonista, leader per caso e simbolo dell’oppressione suo malgrado – con l’ironica sottolineatura che “questo Karl Marx però non era male!” – è in questo senso emblematica. Eppure, il modo di opporsi a una realtà istituzionale spietata quanto subdola, nascosta dalle promesse di progresso che significano annullamento del diverso e sua rimozione fisica, verrà infine trovata. Nel modo più sorprendente, in linea col tono lunare e sempre fuori dai ranghi del film.
C’è una dolcezza intrinseca, in (quasi) tutti i personaggi di The Kamagasaki Cauldron War, una stralunata rivendicazione del diritto all’esistenza, un’amarezza per una vita ai margini e un no future ormai divenuto anche anagrafico; una sensazione mitigata però dalla consapevolezza che quel mondo, quella storia e quegli improbabili compagni di viaggio, sono ormai parte della propria biografia. Si vorrebbe spazzare via il quartiere, come esplicitamente affermato dalla prostituta, si è stanchi di sentire lo stomaco che gorgoglia per la fame, si sogna un mondo globalizzato tanto vicino fisicamente quanto irraggiungibile nei fatti; si cede al più banale dei divide et impera d’antica memoria, trasformando una marcia popolare in una deliziosa zuffa dal tono slapstick con banconote svolazzanti e cazzotti scambiati col compagno che un attimo prima marciava con te. Poi, però, basta una parola per ricompattarsi: la coscienza (e la solidarietà) di classe è questa, emerge come un diamante grezzo quando ce n’è bisogno, se opportunamente stimolata. E poco contano le divisioni tra prostitute e clienti, tra yakuza e non, tra preti e peccatori impenitenti; la guerra tra poveri, forse (ma il film non dà garanzie in questo senso) prima o poi diventerà rivolta contro il nemico giusto. La certezza non c’è, l’auspicio sì.
Il tutto è retto da una sceneggiatura che, pur privilegiando i dialoghi surreali, i siparietti, gli sketch che rovesciano nel grottesco situazioni potenzialmente drammatiche, mostra una notevole compattezza e coerenza; la regia di Sato trova il giusto equilibrio tra sguardo empatico verso i personaggi e (sano) cinismo, da rivolgere verso un bersaglio in fondo non così difficile da individuare. Uno sguardo, quello del regista, che tuttavia fa un passo indietro quando il soggetto potrebbe suggerire un’accelerazione sul piano del melò esplicito: lo fa mettendo ad esempio tra parentesi (apprezzabilmente) il tema del lutto e della sua elaborazione da parte del piccolo protagonista. Tutto The Kamagasaki Cauldron War – oggetto difficile da classificare eppure così straordinariamente vitale – funziona sorprendentemente bene, anche laddove si apre a intermezzi lirici e apparentemente decontestualizzati (la splendida sequenza della danza nel cimitero) per poi tornare sulla terra, alle sghembe eppure così reali vicende dei suoi personaggi. L’affresco che ne deriva non solo coinvolge, ma a tratti riesce a entusiasmare.
Scheda
Titolo originale: The Kamagasaki Cauldron War
Regia: Leo Sato
Paese/anno: Giappone / 2018
Durata: 115’
Genere: Commedia, Drammatico, Noir
Cast: Kazu, Kiyohiko Shibukawa, Maki Nishiyama, Marie Decalco, Masao Adachi, Naori Ota, Susumu Ogata, Tumugi Monko, Yohta Kawase
Sceneggiatura: Leo Sato
Fotografia: Mizuho Otagiri
Montaggio: Yoshiyuki Itakura, Leo Sato
Musiche: Yuzuru Inoue, Haruo Urata
Produttore: Toranosuke Aizawa, Katsuya Tomita, Yoshiko Takano
Casa di Produzione: Kuzoku