PINOCCHIO
"Criticamente" fedele al romanzo di Collodi, capace di ripercorrerne gli eventi attualizzandone (e in parte tradendone) le conclusioni, il Pinocchio di Matteo Garrone è un'operazione interessante e riuscita, ulteriore prova dell'ecletticità (e della coerenza) di un autore più che mai da difendere.
Lignea umanità
Intorno a questa nuova versione di Pinocchio, ennesima rilettura di una storia divenuta ormai archetipo, capace di creare un’intera simbologia e identificata quasi tout court con la variante moderna del romanzo di formazione, c’erano in ugual misura curiosità e scetticismo. La curiosità, per chi conosce e segue il cinema di Matteo Garrone, era legata soprattutto alle capacità e alla visione di un cineasta mai banale, che nel suo viaggio attraverso i generi (dal noir al fantasy) è stato finora capace di mantenere una cifra assolutamente riconoscibile; lo scetticismo era originato dal ricordo della discutibile versione del 2002 firmata da Roberto Benigni; un Benigni tornato qui nei panni di un Mastro Geppetto il cui personaggio pareva altrettanto lontano dall’attore toscano (per aspetto, età e attitudine) di quanto non lo era stato quello di Pinocchio. Ci si interrogava anche, con l’atteggiamento un po’ cinico degli spettatori/lettori navigati, su quanto un qualsiasi cineasta potesse dire di veramente nuovo (e interessante) traendo spunto da una fonte, ormai ampiamente storicizzata, come il romanzo di Carlo Collodi. Il primo trailer del film, per molti, è apparso come una specie di conferma dei peggiori dubbi.
Di fatto, il Pinocchio di Garrone non rappresenta né un cedimento del regista a una logica puramente mainstream (gioverebbe forse ricordare che, nell’industria dell’italico mainstream, Garrone ha trovato da tempo il suo spazio) né una pur vagheggiata rilettura del romanzo di Collodi in chiave dark e/o freak. Il film, semplicemente, risulta essere la prosecuzione di un percorso tutto personale di riflessione e reinterpretazione dei generi – non solo cinematografici – alla luce di un gusto figurativo, e di una sensibilità, che restano assolutamente riconoscibili. La fedeltà filologica alla fonte letteraria originale, il ripercorrere (pur con alcune, significative, omissioni) la successione di eventi del romanzo, non escludono una capacità di “vestire” l’intreccio della propria visione, di rendere più o meno presenti (o visibili) certi personaggi a scapito di altri, di insistere maggiormente su alcune tematiche ricavabili dal testo anziché su altre. Questo è ancor più possibile – ancora oggi, a quasi un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione – su un testo che già in origine fu oggetto di interpretazioni contrastanti, capace di incarnare tra le altre cose la più edificante e “moralista” delle favole per ragazzi e l’allegoria (tutt’altro che rassicurante) su una società industriale che costringe il diverso all’omologazione.
E questo nuovo Pinocchio, nella sua ambizione di monstrum cinematografico (seguendo l’esempio del precedente Il racconto dei racconti, recuperandone la passione per il magico e il fiabesco, ma spostandone ancor più in là l’asticella della ricerca formale) sembra perseguire la fedeltà letterale per poi smarcarsi nei dettagli, imitando la progressione di eventi del romanzo ma elidendone alcune parentesi – non a caso quelle più leggibili in chiave “morale” e pedagogica – per correggerne e attualizzarne il messaggio. Risulta molto sfumato, nel film, il sostrato edificante e sottilmente ricattatorio che vedeva nel viaggio del protagonista, più che una crescita personale, un percorso verso l’omologazione borghese; a differenza di quanto accadeva in Collodi, per Garrone crescere non significa (necessariamente) conformarsi a un preciso modello sociale. Il percorso del suo personaggio, e il suo esito, sembrano a più riprese volercelo ricordare.
Non è un caso che l’aspetto di Pinocchio, abbandonata l’iconografia spigolosa e ricca di angoli delle prime illustrazioni del personaggio, adotti uno stile che non lo discosta poi molto da quello di un bambino. Intagliato, più che costruito e assemblato, il Pinocchio del piccolo Federico Ielapi ha in bella vista, sul volto, i solchi e le irregolarità della sua consistenza lignea; ma la forma del suo viso e le sue movenze tradiscono un’umanità innegabile. L’ottimo lavoro di make-up di Mark Coulier punta da un lato a sottolineare la differenza del personaggio e la sua realtà di unicuum, dall’altro a non nasconderne l’espressività facciale, evidenziando da subito la sua umanità in nuce: non è un caso che manchi, nel finale – omissione tra le più significative – l’osservazione da parte del Pinocchio trasformato del vecchio involucro di legno, con la sprezzante presa di distanza dal passato (“Com’ero buffo quand’ero un burattino! E come sono contento ora di essere diventato un ragazzino per bene!”). Qui, il burattino continua a vivere nel bambino: di crescita e maturazione si è trattato, piuttosto che di trasformazione tout court.
Garrone non rinuncia a far dialogare l’ottocentesca vicenda raccontata da Collodi con la contemporaneità, operando piccole e sostanziali modifiche alla storia (nell’episodio del confronto di Pinocchio col giudice, per esempio, il protagonista evita la prigione dichiarandosi un criminale, anziché fuoriuscirne dopo esservi stato rinchiuso; la differenza, apparentemente sottile, esclude qualsiasi critica a un istituto come quello dell’amnistia), attenuando il carattere minaccioso di un personaggio come quello del Grillo Parlante – saggio consigliere consapevole del suo inevitabile mancato ascolto, piuttosto che severa incarnazione della coscienza – e riducendo il motivo della bugia e l’allungamento del naso a giocoso omaggio al passato, del tutto secondario (per non dire ininfluente) nell’economia narrativa della storia. Più che elencare ciò che del romanzo è stato sfoltito (dal Paese delle Api Industriose alla – pur significativa – morte di Lucignolo trasformato in asino), giova sottolineare come il tema delle differenze di classe, e uno sguardo che, tra le pieghe della storia, tende a solidarizzare con gli ultimi (bambini e non) siano il vero valore aggiunto di questa rilettura della storia; non è un caso la lapidaria risposta di Pinocchio quando gli viene chiesto che mestiere faccia suo padre (“il povero”, risponde semplicemente il burattino).
Se risulta sorprendentemente intensa e misurata la prova di un Benigni che, finalmente, si riappropria della capacità di recitare – utilizzando, del mestiere della recitazione, tutta la gamma espressiva, il resto del cast fa il suo, con mestiere e senza timori reverenziali per la “sacralità” del materiale di partenza: da un Gigi Proietti che, nel ruolo di Mangiafuoco, ci sarebbe piaciuto vedere più presente sullo schermo, alla coppia costituita da Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, Gatto e Volpe dalla malvagità più sfumata (e simpaticamente cialtrona) rispetto a molte loro incarnazioni passate. Un discorso a parte va fatto per il piccolo Federico Ielapi, un Pinocchio decisamente valido quanto a gamma espressiva e capacità di rendere le varie fasi del personaggio (specie sotto un make-up mai invasivo, ma comunque presente), ma da rivedere quanto a tono e timbro di voce (il vago accento romano che emergeva dal trailer era stato, in effetti, tra i motivi delle critiche preventive). Da parte sua, Garrone non rinuncia al gusto pittorico già emerso a più riprese, in modi diversi, da tutto il suo cinema, valorizzando decisamente l’impianto fiabesco della storia originale, e facendo forse il miglior uso del trucco prostetico che il cinema italiano abbia visto da molti anni a questa parte. Una costruzione visiva che, del carattere fiabesco del romanzo, non esclude il lato più cupo, con qualche apprezzabile puntata simil-horror (la trasformazione in asini di Pinocchio e Lucignolo, insolitamente esplicita).
Incasserà verosimilmente molto, Pinocchio, opera mainstream dall’anima autoriale (anche se qualcuno cercherà di sminuire questo aspetto); e altrettanto verosimilmente dividerà il pubblico più attento, quello di chi va al cinema avendo un minimo di conoscenza del lavoro del regista, in estimatori e detrattori. Chi si aspettava un film che rivoltasse e riscrivesse completamente il romanzo di Collodi, magari portandone alla luce (solo) gli aspetti più cupi e meno trattati, resterà verosimilmente deluso: la reinterpretazione di Garrone lavora a un livello diverso, sotto la superficie della storia e dentro le sue pieghe, nel suo essere in grado (come qualsiasi archetipo) di prestarsi a una molteplicità di letture. I mostri sacri, dal classico disneyiano del 1940 allo sceneggiato di Luigi Comencini del 1972, sono lì a testimoniare questo assunto; il film vi si rapporta con rispetto ma non fa mistero di guardare principalmente (seppur in termini di – rispettosa – revisione critica) al testo originale. Un’operazione da non sottovalutare, tantomeno da liquidare col malcelato disprezzo che colpisce – altro antico male – tutto ciò che si dichiara esplicitamente come popolare.
Scheda
Titolo originale: Pinocchio
Regia: Matteo Garrone
Paese/anno: Francia, Regno Unito, Italia / 2019
Durata: 120’
Genere: Avventura, Fantastico
Cast: Massimiliano Gallo, Rocco Papaleo, Alida Baldari Calabria, Gianfranco Gallo, Maurizio Lombardi, Lorenzo McGovern Zaini, Paolo Graziosi, Teco Celio, Davide Marotta, Massimo Ceccherini, Alessio Di Domenicantonio, Federico Ielapi, Gigi Proietti, Marine Vacth, Enzo Vetrano, Maria Pia Timo, Nino Scardina, Roberto Benigni
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Ceccherini
Fotografia: Nicolai Brüel
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Dario Marianelli
Produttore: Matteo Garrone, Jeremy Thomas, Jean Labadie, Paolo Del Brocco, Anne-Laure Labadie
Casa di Produzione: Canal+, BPER Banca, Ciné+, Le Pacte, Rai Cinema, Archimede, Leone Film Group, Recorded Picture Company (RPC)
Distribuzione: 01 Distribution
Data di uscita: 19/12/2019