IMPETIGORE
di Joko Anwar
Tornando a frequentare un genere a lui congeniale come l’horror, Joko Anwar si smarca dall’iconografia più facile del genere, andando a immergersi in un folklore che è affascinante e respingente in ugual misura: un insieme, quello di Impetigore, la cui forza risulta alla fine superiore alla mera sommatoria dei suoi elementi. Al Far East Film Festival 2020.
Memoria disturbante
Presenza costante nelle passate annate del Far East Film Festival, cineasta tra i più interessanti dell’attuale panorama indonesiano, Joko Anwar non è voluto mancare neanche in questa edizione online del festival friulano, tornando a un genere, qual e l’horror, in cui già aveva avuto modo di dire la sua. In linea con l’eclettismo del suo autore, e con la sua tendenza a partire dai generi per esplorare strade altre e impervie, Impetigore (in indonesiano Perempuan Tanah Jahanam, ovvero “La ragazza dell’inferno”) è un’opera che mostra un approccio personale e tutt’altro che scontato alla paura cinematografica; un approccio in cui l’orrore per il sovrannaturale si mescola a un lavoro che scava in oscure tradizioni e rituali del tutto umani. L’horror di carattere “antropologico” è d’altronde un filone che negli ultimi anni si è fatto sentire spesso anche nel cinema occidentale, da titoli come The VVitch agli horror di Ari Aster; ma l’approccio di Joko Anwar è insieme più libero e più radicale rispetto a quello dei colleghi, non avendo paura a disturbare anche con ciò che resta fuori campo.
La trama del film muove dalla figura di Maya, giovane addetta a un casello autostradale, che viene perseguitata ogni notte da un misterioso individuo, che sembra conoscere alcuni oscuri fatti del suo passato; l’ultimo, traumatico passaggio dell’uomo porta Maya a individuare un luogo preciso, il villaggio rurale della sua prima infanzia, convincendola a imbarcarsi in una ricerca che riporterà in superficie volti e ricordi del suo passato. Insieme all’amica e collega Dini, Maya si immerge così in un viaggio che è per metà esplorazione del presente con uno scopo preciso – la percezione di una cospicua, inaspettata eredità – per metà risveglio della memoria, legata al periodo dell’infanzia e ai genitori che la ragazza ricorda a stento, scomparsi durante i suoi primi anni di vita. Ma la presenza di Maya non passerà inosservata agli ostili abitanti del villaggio, convinti che la ragazza porti con sé una maledizione che ha condotto alla rovina l’intera comunità.
Sposta costantemente il focus dell’orrore, Impetigore, giocando con l’ambiguità sulla veridicità o meno della maledizione di cui la protagonista sarebbe portatrice; il personaggio di Maya diviene alternativamente oggetto di identificazione ed elemento repulsivo, alla stregua di portatrice (in)sana di un orrore che sarebbe nato con lei. Il regista gioca intelligentemente con l’elemento del flashback, andando a ricostruire un passato di cui solo al termine comprendiamo tutte le sfaccettature; ma, al di sopra di tutto, c’è la discesa in un universo arcaico posto appena al di fuori della modernità, minaccioso quanto affascinante. Non ha paura a dilatare il ritmo del racconto, Anwar, prendendosi il suo tempo per presentare i personaggi del presente e del passato, ed evitando qualsiasi flirt con l’effetto-shock; alieno al meccanismo del jumpscare, ma anche all’iconografia ormai cristallizzata dell’horror asiatico più mainstream, Impetigore avviluppa lo spettatore in un’atmosfera dal fascino malato, in cui ciò che resta fuori campo fa quasi più paura di ciò che viene direttamente mostrato.
Lavora su più livelli, Impetigore, andando a giocare con l’elemento “innocente” per eccellenza – quello infantile – per portare avanti l’ambiguità della figura della protagonista, e i contrastanti sentimenti di cui questa viene fatta oggetto. La regia di Anwar si affida al fascino delle location senza lasciarsene travolgere, mantenendo alla base quel clima di ambiguità disturbante che non ha bisogno di facili espedienti per funzionare; ogni elemento iconografico presente nel film – ivi compreso l’affascinante teatro delle marionette di pelle – è insieme potente di per sé e narrativamente funzionale. Non ha paura di mostrare, il film di Joko Anwar, tanto nella storyline principale quanto nei flashback, ma la sua potenza disturbante viene dalla sua gestalt, da un insieme di elementi – visivi e narrativi – il cui combinato risulta superiore (e più efficace) della loro mera sommatoria. Merito, anche, di una sceneggiatura priva di sbavature, che scioglie solo nei minuti finali un puzzle d’orrore di cui si erano solo intuiti i contorni. Un puzzle la cui ricomposizione accompagna lo spettatore a lungo anche dopo la visione, persistendo nella memoria quasi con la stessa forza con cui aveva avviluppato i sensi.
Scheda
Titolo originale: Perempuan Tanah Jahanam
Regia: Joko Anwar
Paese/anno: Indonesia, Corea del Sud / 2019
Durata: 106’
Genere: Horror, Drammatico
Cast: Abdurrahman Arif, Adi Irawan, Aghniny Haque, Ahmad Ramadhan, Ario Bayu, Asmara Abigail, Aura Agna, Christine Hakim, Devona Queeny, Faradina Mufti, Kiki Narendra, Latisya Ayu, Marissa Anita, Muhammad Abe Baasyin, Mursiyanto, Sindris Ogiska G., Sinyo Sandy, T. Rifnu Wikana, Tara Basro, Yansky, Zidni Hakim
Sceneggiatura: Joko Anwar
Fotografia: Ical Tanjung
Montaggio: Dinda Amanda
Musiche: Bembi Gusti, Tony Merle, Aghi Narottama, Mian Tiara
Produttore: Tia Hasibuan, Brian Kornreich, Richard Lewis, Richard D. Lewis, Aoura Lovenson Chandra, Hyerim Oh, Park Bomee, Ben Soebiakto, Shanty Harmayn
Casa di Produzione: Base Entertainment, Ivanhoe Pictures, Rapi Films, CJ Entertainment