POPPY FIELD
È un esordio sorprendente, quello del regista teatrale Eugen Jebeleanu con Poppy Field, capace di raccontare il privato di un individuo scisso, incapace di conciliare il lavoro con la sua identità di omosessuale, e di fare contemporaneamente una disamina impietosa di una frazione della società rumena. In concorso al Torino Film Festival 2020.
L'identità scissa
È l’esordio che non ti aspetti, quello di Eugen Jebeleanu in Poppy Field. Questo perché il cineasta rumeno, tra i più apprezzati registi teatrali del suo paese, ha diretto un film che ha altresì una fattura assolutamente cinematografica, per ritmo, recitazione, soluzioni di regia adottate. Quella di Jebelanu è una messa in scena secca, radicale nel suo stare costantemente attaccata al suo protagonista (l’attore Conrad Mericoffer, a sua volta al suo esordio in un lungometraggio), vicinanza esaltata visivamente dall’uso del 16mm. L’attore interpreta Cristi, un poliziotto che tiene nascosta la sua omosessualità in un ambiente strettamente gerarchico e maschile. Quando il corpo di polizia locale si trova a intervenire in un cinema, all’interno del quale un gruppo di manifestanti ha appena interrotto la proiezione di un film a tematica LGBT, Cristi cerca di restare in disparte, a disagio; ma quando uno degli spettatori lo riconosce, e minaccia di rivelare ai suoi colleghi la sua omosessualità, l’uomo perde la calma e compie un gesto inconsulto.
È claustrofobica, la messa in scena di Poppy Field, tutta concentrata all’interno del cinema in cui i due gruppi si stanno confrontando, con l’eccezione delle prime sequenze che ritraggono il protagonista in compagnia del suo fidanzato francese, che è venuto a trovarlo per qualche giorno. L’introduzione serve a delineare al meglio il carattere di Cristi, con la sua riottosità a uscire col suo compagno e il disagio che prova quando riceve una visita della sorella; sono pochi minuti che tuttavia, con una gestione intelligente ed essenziale dei dialoghi, introducono al meglio il personaggio e il suo conflitto interiore. Quando l’azione si sposta all’interno del cinema, veniamo direttamente catapultati nel caos scatenato dai manifestanti, con la macchina da presa sempre mobile, che si prodiga in lunghi piani sequenza che chiamano a un coinvolgimento quasi fisico – raggiunto anche grazie all’uso del 16mm. La tensione che si respira nella sala cinematografica, coi manifestanti a esporre i loro cartelli e le loro icone, e gli spettatori che si appellano alla polizia per il sopruso subito, è quasi palpabile, sempre declinata attraverso il punto di vista del protagonista.
Non vuole fare un trattato sociologico, Poppy Field, per il quale il regista si è ispirato a un fatto realmente accaduto nel 2013 a Bucharest, quando la proiezione di un film LGBT fu interrotta da un gruppo di manifestanti omofobi. Non aspira a essere un pamphlet, pur restando chiara l’inclinazione dello sguardo del regista, e in special modo l’inquadramento dell’ipocrisia che regna in un ambiente – solo apparentemente tollerante – come quello della polizia. Proprio questa descrizione d’ambiente accurata è lo sfondo ideale per un dramma che è tutto interiore, consumato nella coscienza del protagonista, in lotta con la sua identità di omosessuale – al punto di rinnegarla con violenza – per conformarsi a un organismo che non tollererebbe mai un elemento di diversità al suo interno. La seconda parte del film, che vede quasi interamente Cristi da solo nel cinema appena sgomberato, guardato a vista di volta in volta da un diverso collega perché non cerchi un contatto col giovane che ha appena colpito, è quanto di più essenziale e claustrofobico si possa immaginare; ma questa lunga frazione, coi dialoghi con colleghi e superiori, serve anche a meglio inquadrare la realtà del corpo di polizia, il suo malinteso senso di solidarietà tra colleghi e l’omofobia che striscia sotto la sua superficie.
Presentato in concorso al Torino Film Festival, Poppy Field ha dunque il merito di riuscire a raccontare contemporaneamente un dramma interiore, quello di una personalità scissa tra il suo lavoro e il suo privato, e di fare una disamina spietata, essenziale quanto precisa, di una frazione della società rumena e dell’anima reazionaria (appena nascosta da un velo di modernità) che ancora la muove. Lo fa, il film di Eugen Jebeleanu, grazie a dialoghi attentamente concepiti, in cui ogni battuta è funzionale alla descrizione del contesto e dei personaggi, e a una messa in scena che conferisce a questo dramma la tensione di un thriller. Un esempio di cinema in cui la fattura scarna della messa in scena, e la ricchezza dei dialoghi e della costruzione dei personaggi, colpiscono nel segno, lasciando una traccia difficile da cancellare dopo la visione.
Scheda
Titolo originale: Câmp de maci
Regia: Eugen Jebeleanu
Paese/anno: Romania / 2020
Durata: 81’
Genere: Drammatico
Cast: Alexandru Potocean, George Pistereanu, Lucian Ifrim, Alex Calin, Bogdan Nechifor, Cendana Trifan, Conrad Mericoffer, Denis Hanganu, Ela Ionescu, Florin Caracala, Gabriel Rauta, Ionut Niculae, Mihaela Sirbu, Radouan Leflahi, Rolando Matsangos, Ruxandra Maniu, Stefan Huluba, Valentina Zaharia, Virgil Aioanei, Vlad Bîrzanu
Sceneggiatura: Ioana Moraru
Fotografia: Marius Panduru
Montaggio: Catalin Cristutiu
Produttore: Rodrigo Ruiz Tarazona, Cosmin Fericean, Velvet Moraru, Cornelia Popa
Casa di Produzione: ICON production, Motion Picture Management, Cutare Film