FIGHT CLUB
A oltre vent’anni dalla sua uscita, Fight Club resta un film potentissimo, l’allucinata caricatura di una società in decadimento, pronta ad autodistruggersi. Lo stile da videoclip di David Fincher si adatta bene alla fonte letteraria di Chuck Palahniuk: il risultato è un film cupo e grottesco, e al contempo lucido e teorico. Sicuramente tra le opere-chiave per comprendere un decennio che arrivava proprio allora al suo termine.
Una nichilistica rivoluzione
Siamo nel 1999: il decennio – e con esso il secolo, e lo stesso millennio – volgono al termine, preparandosi a portare con sé tutto il cinema e la cultura venuti fino ad allora. Internet sta faticosamente emergendo come fenomeno di massa, e con essa la nascente società digitale: simboli e pratiche nuovi si preparano a sostituire quelli precedenti, mentre alcuni eventi-spartiacque (anche se allora non potevamo ancora saperlo) sono alle porte. La stessa produzione e fruizione del cinema si prepara a mutare, anche se il processo sarà graduale. Nessun film rappresenta forse con maggior precisione (inconsapevole?) quel momento di passaggio e di compresenza di due mondi come Fight Club di David Fincher. Un film che, curiosamente, alla sua uscita in sala non riscosse il successo sperato: la risposta del pubblico fu tiepida (solo 100 milioni di dollari di incasso con un budget di 63), quella della critica – che poté vederlo in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia – da subito divisa e polarizzata. Il film di Fincher iniziò ad acquistare in egual misura estimatori e detrattori. Eppure, come già accaduto in passato per altre opere, la sua popolarità sarebbe cresciuta negli anni successivi, gradualmente e (quasi) silenziosamente. L’home video – con la moltiplicazione dei supporti disponibili – avrebbe decretato sul medio/lungo termine il suo successo. Un culto sotterraneo e irresistibile, un po’ come quello di Tyler Durden e del suo club di combattimenti clandestini.
L’incontro liberatorio
Al centro della trama di Fight Club c’è il personaggio (senza nome) interpretato da Edward Norton, uno yuppie insonne e depresso, solitario e privo di legami. L’uomo, impiegato nel ramo automobilistico di una società di assicurazioni, riesce a combattere l’insonnia e il malessere solo prendendo parte a riunioni di malati terminali, dove finge di essere affetto dalle più svariate patologie. In alcuni di questi incontri, il protagonista si imbatte in Marla Singer (Helena Bonham Carter), che sembra fingere esattamente come lui; dopo l’iniziale ritrosia e fastidio di entrambi, i due trovano un punto di contatto e si accordano su una divisione tra loro dei vari gruppi di supporto. Successivamente, l’uomo incontra durante un viaggio di lavoro Tyler Durden (Brad Pitt), un eccentrico venditore di saponette che sembra di godere di una vita sia ricca che appagante. Quando, tornato a casa dal viaggio, l’agente trova il suo appartamento distrutto da una fuga di gas, non può che rivolgersi a Tyler per trovare un alloggio. E lo trova nella fatiscente e abbandonata casa di Durden: i due, oltre a un’intesa quasi sovrannaturale, iniziano a portare avanti un giro di combattimenti clandestini, il Fight Club. L’obiettivo, dichiarato, è quello di liberare i propri istinti più bestiali e superare le regole della società borghese.
Il germe nascosto
Fight Club, a oltre un ventennio dalla sua uscita, resta tra i film più personali e liberi di David Fincher, malgrado la sua origine letteraria – o forse proprio in virtù di essa. Le suggestioni del romanzo di Chuck Palahniuk, infatti (di tre anni precedente) mostrano una società americana borghese al capolinea, che la storia del protagonista – yuppie incallito e incancrenito residuo del peggio del decennio precedente, borghese decadente che è già inconsapevole caricatura di un certo stile di vita – riassume al meglio su di sé. La nichilistica “liberazione”, quella portata dal doppio/specchio Tyler Durden, sembra essere l’unico rimedio possibile per reagire alla sofferenza e alle nevrosi portate da un modo di vivere che ha mostrato tutte le sue patologie. La caricatura dello yuppismo non è violenta come in American Psycho di Bret Easton Ellis, ma è altrettanto corrosiva. Palahniuk, e Fincher dopo di lui, fanno una disamina attenta di quel mondo, ne mostrano i feticci (l’ossessione per la casa in ordine e perfettamente arredata, la voglia compulsiva di accumulare beni di scarsa o nulla utilità pratica) e le degenerazioni patologiche (l’insonnia, il bisogno di ottenere il riconoscimento altrui fingendo una sofferenza che non è la propria). Poi, nel personaggio di Tyler Durden, ne mostrano il rovescio: un’altra degenerazione, in realtà, ma lucida e consapevole, un violento anarchismo che il sistema cova dentro di sé e che contiene i germi della sua distruzione.
(Auto)distruzione dall’interno
David Fincher, che aveva già mostrato un’estetica molto personale in un film come Se7en (ma anche nei più alimentari Alien 3 e The Game – Nessuna regola) porta sullo schermo la storia di Fight Club esaltandone il carattere già cinematografico in nuce. Tyler Durden – un Brad Pitt che è qui a una delle sue migliori prove – si nasconde letteralmente nelle pieghe del girato, in inquadrature subliminali piazzate tra un fotogramma e l’altro, a rappresentare il virus nascosto (in tutta la prima parte) nella vita omologata del personaggio interpretato con altrettanta efficacia da Edward Norton. Durden è più di un doppio malvagio: è il germe nascosto, il sabotatore interno pronto a far esplodere (letteralmente) il sistema da dentro. Prima di fondare il suo Fight Club – e la sua evoluzione nel Progetto Mayehm – Durden piazza inquadrature subliminali pornografiche in vecchi film proiettati al cinema; successivamente, in modo altrettanto metodico e sotterraneo, crea e fa proliferare la sua organizzazione clandestina, sorta di setta massonica che si insinua nei gangli del potere occupandone i punti nevralgici. Il risultato sarà violento e deflagrante: alla gioiosa distruzione dei corpi (portata da combattimenti sempre più sanguinosi) si accompagna quella dei principali centri di potere economico, culminata in un finale ancora oggi potentissimo. L’estetica da videoclip del regista (il suo mondo di provenienza è quello) è perfetta traduzione visiva del nevrotico mondo che avvolge il protagonista, rappresentato anche in un sincopato ed efficace montaggio. Il resto lo fanno l’ossessiva colonna sonora dei Dust Brothers (culminata nella finale, liberatoria Where Is My Mind? dei Pixies) e la prova di una obliqua e fascinosa Helena Bonham Carter. E, in questo senso, le obiezioni portate da alcuni alla sceneggiatura (e alla stessa coerenza del twist finale) assumono un rilievo davvero relativo: Fight Club, in fondo, è la raffigurazione di un lucido delirio, in cui il mondo interno del protagonista fa da specchio a quello esterno, altrettanto pronto a collassare. In questo, il film di David Fincher è perfettamente coerente con sé stesso, oltre che lucidissimo e di grande potenza visiva.
Scheda
Titolo originale: Fight Club
Regia: David Fincher
Paese/anno: Stati Uniti, Germania / 1999
Durata: 139’
Genere: Drammatico
Cast: Brad Pitt, Helena Bonham Carter, Jared Leto, Edward Norton, Eugenie Bondurant, Tim DeZarn, Bob Stephenson, Charlie Dell, Christina Cabot, David Andrews, Ezra Buzzington, George Maguire, Meat Loaf, Rachel Singer, Richmond Arquette, Rob Lanza, Zach Grenier
Sceneggiatura: Jim Uhls
Fotografia: Jeff Cronenweth
Montaggio: James Haygood
Musiche: Dust Brothers, John King, Michael Simpson
Produttore: John S. Dorsey, Art Linson, Ceán Chaffin, Ross Grayson Bell
Casa di Produzione: Atman Entertainment, Knickerbocker Films, Fox 2000 Pictures, Taurus Film, New Regency Productions, Linson Films
Distribuzione: Medusa Distribuzione
Data di uscita: 29/10/1999