MARILYN HA GLI OCCHI NERI, IL CAST E IL REGISTA SIMONE GODANO PRESENTANO IL FILM
Stefano Accorsi e Miriam Leone si sono ritrovati per presentare l’ultimo film di Simone Godano. La pellicola, prodotta da Rai Cinema e distribuita da 01 Distribution, sarà nelle sale dal 14 ottobre.
Dopo aver condiviso il successo della seria 1992 di Sky, Stefano Accorsi e Miriam Leone tornano a incontrarsi sul set di Marilyn ha gli occhi neri, film diretto da Simone Godano, scritto da Giulia Steigerwalte distribuito in 300 copie da 01 Distribution dal 14 ottobre. Questa volta le ambientazioni sono quelle di una vicenda con diversi piani narrativi. A guidarci tra emozioni, risate e riflessioni ci sono due personaggi sui generis. Stiamo parlando di Clara, bugiarda di professione per sfuggire alle insicurezze della sua vita, e Diego, un uomo con varie psicosi e frequenti attacchi d’ira che ancora non ha fatto pace con la sua condizione di ex bambino abbandonato dalla madre in tenera età. Dove possono incontrarsi due persone cosi? Semplice, in un centro diurno per il recupero di personalità disturbate.
Un mondo a parte, quello del centro, dove accanto a Clara e Diego si muove un’umanità complessa e fragile, costantemente impaurita dall’esterno e dal giudizio di una moltitudine che si crede nel giusto perché “normale”. Ma chi lo è veramente fino in fondo? Questo è quello che ci si chiede frequentemente mentre si assiste all’avventura del Monroe, il ristorante che “non esiste” aperto da Diego e Clara. In questo modo l’esterno viene a contatto con il loro universo e nel confronto la “follia” inconsapevole diventa gesto artistico, originalità che non giudica e non vuole essere giudicata confrontandosi con un mondo che impone degli standard inesistenti, escludendo l’unicità del singolo. E proprio per puntare l’attenzione sulle molte tematiche contenute nella vicenda e raccontare l’evoluzione di Diego e Clara, i due protagonisti, con il regista Simone Godano, hanno incontrato la stampa in una conferenza di presentazione a Roma.
Il film trasporta lo spettatore nel cuore di un ambiente particolare come quello della follia. Cosa vi ha portato verso questo tipo di storia e, soprattutto, di ambientazione?
Simone Godano: Tutto nasce già con il film Croce e Delizia. In modo particolare, dopo una proiezione della pellicola organizzata all’interno di un centro disabili e gestita completamente da loro, mi sono reso conto che anche per chi sembra partire svantaggiato è possibile avere una seconda possibilità. Da quel momento con Giulia Steigerwalt abbiamo iniziato a pensare a una storia che raccontasse la diversità ma senza utilizzare alcun meccanismo scenico. Il nostro intento era concentrarci solo sulle persone. Per quanto riguarda l’avventura virtuale del Monroe, invece, abbiamo tratto ispirazione dal caso di un ragazzo inglese, che nel 2017 ha conquistato le prime pagine dei giornali. Non so se ricordate ma un certo Oobah Butler, dopo essere stato licenziato, ha deciso di mettere in piedi una grande illusione. Ossia la creazione di un ristorante fantasma, presente esclusivamente sui social e sul web. In breve tempo la sua creatura virtuale ha raggiunto la prima posizione tra tutti i locali di Londra senza essere mai stato aperto. A garantire il suo successo sono un numero infinito di ottime recensioni, anche se nessuno ha mai messo piede nel ristorante. Questo vuol dire che partecipare a un particolare evento mediatico o social è più importante della realtà stessa. Per finire, la creazione di due personaggi straordinari come Clara e Diego ha dato vita a una scrittura onesta e reale.
Giulia Steigerwalt: Con Simone ci siamo avvicinati a questo mondo particolare e abbiamo capito come possa trasformarsi in una sorta di cassa di risonanza. Qui ognuno può ritirarsi e ritrovarsi nella bellezza di accettarsi per chi siamo veramente.
Clara e Diego sono due anime intense che devono fare i conti con le loro debolezze. Le stesse che il mondo esterno considera folli o inadeguate. Come vi siete preparati per questi ruoli riuscendo a renderli cosi teneramente reali?
Stefano Accorsi: Personalmente parto sempre dal copione. In questo caso, poi, mi sono trovato di fronte a delle pagine particolarmente coinvolgenti. Fin dalla prima lettura, infatti, ho capito che Giulia aveva scelto un approccio assolutamente empatico. Il secondo step, poi, è stato parlare, confrontarsi con le persone che vivono queste fragilità. Documentarsi e testare di persona è importante, altrimenti non si riesce a entrare in un mondo ma si rischia di mettere in scena solo l’idea che abbiamo di lui. In fondo, ognuno di noi ha tic e manie, più o meno nascoste, che ci fanno sentire vicino a chi viene considerato “diverso”, instabile. È stato come specchiarsi in loro. Per finire, poi, c’è il rapporto con i tuoi compagni di set. Un film di questo tipo, con un apparato umano cosi forte e intenso, non riesci a farlo da solo, senza l’aiuto di tutti. Per questo lavorare con Miriam e ritrovare la nostra sintonia è stato fondamentale.
Miriam Leone: Il percorso che ho fatto per conoscere Clara è stato particolare. Sono partita da me stessa per diventare personaggio e, alla fine, ritornare a essere nuovamente persona. In questo modo ho abbracciato questa ragazza, che adoro. Clara è l’amica un po’ folle e imprevedibile che avrei voluto avere. Quella che non crede in se stessa ma riesce a dare fiducia agli altri. Nel rapporto con Diego agisce proprio cosi. Lui, d’altronde, è uno chef senza cucina cui lei riesce a regalare addirittura un ristorante e la consapevolezza delle sue capacità. È come se fosse eternamente in equilibrio tra la pessima gestione delle proprie fragilità e l’input vitale che infonde in chi le sta accanto. E proprio mantenere questo equilibrio ha rappresentato la sfida più grande. Per comprendere pienamente questo mondo, poi, ho frequentato i centri di recupero, mangiando e passando del tempo con loro. In questo modo il mio approccio con il mondo di Clara è stato più naturale. Un mondo dove il giudizio degli altri non esiste.
La regia non è mai invadente, non ci sono manierismi e nemmeno smanie di protagonismo. Il tocco del regista è presente ma in modo molto discreto. Per raggiungere questo risultato si è ispirato a qualche riferimento specifico?
Simone Godano: Anche per me trovare un equilibro per le soluzioni registiche non è stato semplice. La difficoltà maggiore con la quale mi sono confrontato è stato il repentino cambio di livelli e intensità narrativa in ogni singola scena. Per questo motivo non volevo che la messa in scena fosse invasiva. Desideravo che al centro dell’attenzione ci fosse il mondo dei centri diurni, abitati da creature con la stessa sensibilità di un bambino che tende a estremizzare tutto. Poi, se proprio devo citare alcuni film che mi hanno influenzato, allora non posso che far riferimento a un certo cinema americano rappresentato da pellicole come Il lato positivo e Se mi lasci ti cancello. Altrettanto interessante, però, è il cinema nordico. Nella sua narrazione delle psicosi, infatti, non mostra mai toni compassionevoli o melodrammatici.
Costruire i personaggi di Diego e Clara non è stato facile. Avete utilizzato una sorta di biografia grazie alla quale comprendere le motivazioni dietro le loro fragilità?
Stefano Accorsi: Avere a disposizione la biografia del proprio personaggio può essere utile. Ti porta nel suo mondo. Nonostante questo, però, credo che bisogna fare molta attenzione a intellettualizzarlo troppo. Quello che è veramente importante, infatti, è riuscire a entrare nella carne del personaggio, capendo, per esempio, che un tic è una reazione dove rifugiarsi in un momento di disagio.
Miriam Leone: Con Diego e Clara ci siamo calati in una normalità. D’altronde l’attore deve abitare il corpo del suo personaggio e noi lo abbiamo fatto con un’energia ritrovata. Veniamo da due anni di corpi isolati. Per questo motivo ci siamo ritrovati sul set con una grande voglia di stare vicini, nonostante le mille parole. Di ingaggiare un corpo a corpo costante, riempiendo con naturalezza gli spazi.
In un periodo storico come quello che stiamo vivendo in cui il controllo e l’omologazione sembrano le uniche vie per riprendere a vivere, perché avete scelto una storia che elogia l’imprevedibilità della follia?
Miriam Leone: Credo che in questo momento sia assolutamente naturale interrogarsi sulla diversità proprio perché viviamo una forte omologazione. È un po’ ammettere che l’altro è dentro di noi. Essere diversi è possibile.
Stefano Accorsi: Quando entri a contatto con quella che definiamo follia, ti rendi conto che esistono delle persone con una logica e delle necessità completamente diverse dalle nostre. Le loro vite sono scandite da tempistiche e temi diversi che, però, riecheggiano in noi. Soprattutto in chi non è nato in una società tecnologica. Esattamente come noi. Quanta importanza credete abbiano i social, i like e i commenti negativi sotto un post per chi frequenta i centri diurni? Sicuramente poca.
Una frase del film mette in evidenza lo stato di insicurezza di certe minoranze nei confronti di una maggioranza che, in virtù di un numero corposo, pensa di essere nel giusto. Come si traduce nella vita reale di chi vive l’inadeguatezza delle proprie fragilità?
Stefano Accorsi: Ultimamente sono state fatte molte polemiche sul politicamente corretto. Sembra che tutti si siano stancati di utilizzare un certo tono quando si affrontano discussioni riguardo a quelle che definiamo minoranze. Che siano sociali, etniche o sessuali non fa alcuna differenza. Il fatto è, però, che quando si entra in contatto con loro e ci si immerge nella quotidianità di queste persone, allora si capisce quanto sia difficile far parte di una minoranza. Attenzione. Il film non vuole essere politico in nessun modo. Piuttosto è umano. Questo vuol dire anche mettere in evidenza la facilità di essere in molti e la difficoltà di ritrovarsi in pochi. Dovremmo sempre tener conto di questo.