NON APRITE QUELLA PORTA
L’annunciato sequel diretto del primo Non aprite quella porta, nonostante uno spunto di partenza con qualche motivo di interesse, è un prodotto anonimo, segnato dalla caratterizzazione deficitaria dei personaggi e dalla fiacca regia di David Blue Garcia. Su Netflix.
C’è ultimamente, nel cinema horror e non solo, una gran voglia di sequel diretti e/o requel, per usare l’espressione sdoganata (e indirettamente utilizzata per definire il film stesso) nell’ultimo riuscito Scream. Già la scelta della titolazione degli ultimi esempi di questa tendenza, d’altronde, dice molto: Halloween, Candyman, Scream, appunto. Tutti “nuovi episodi” delle rispettive saghe – nel primo e nel secondo caso, sequel diretti dei rispettivi primi episodi, che ignorano i capitoli intercorsi nel frattempo – e tutti che riprendono la titolazione del prototipo. Succederà qualcosa di simile, probabilmente, anche per i nuovi episodi de L’esorcista (ne sono previsti tre), annunciati sequel canonici del film di William Friedkin, che vedranno il ritorno di un’anziana Ellen Burstyn nello storico ruolo della madre della posseduta Regan. Ed è successo qualcosa di simile anche nel caso di questo nuovo Non aprite quella porta, cronologicamente il nono episodio della saga avviata nel 1974 dal film di Tobe Hooper, ma ufficialmente sequel diretto di quest’ultimo, che vede il ritorno del personaggio dell’unica superstite del “massacro della motosega texana”, Sally Hardesty. Personaggio per cui, tuttavia, non è stato possibile richiamare l’interprete di allora (Marilyn Burns, scomparsa nel 2014), sostituita con l’attrice irlandese Olwen Fouéré.
La follia omicida si riaccende
Il plot del film di David Blue Garcia si situa circa un cinquantennio dopo gli eventi dell’originale: ne sono protagonisti Melody, Dante, Lila e Ruth, gruppo di giovani benestanti e idealisti, che hanno acquistato gran parte dell’area urbana di Harlow, cittadina texana ormai da tempo spopolata, per metterne all’asta le proprietà. I ragazzi, tuttavia, scoprono con sorpresa che l’orfanotrofio locale, sulla carta abbandonato, è in realtà occupata da un’anziana signora malata di cuore, e da un misterioso, silenzioso coinquilino. I ragazzi, ufficialmente destinatari legittimi dello stabile, chiamano la polizia per far sgomberare i due occupanti; tuttavia, dopo che gli agenti hanno prelevato i due, la donna anziana muore d’infarto durante il trasporto in centrale. Sconvolto, l’uomo impazzisce e uccide i poliziotti, mettendosi sulle tracce dei ragazzi: si tratta in realtà di Leatherface, ultimo superstite della famiglia Sawyer e responsabile principale della follia omicida che nel 1973 costò la vita a quattro giovani, lasciando un’unica superstite. Superstite che, tuttavia, non ha mai dimenticato quell’orrore.
Sally e i conti in sospeso
L’idea alla base del nuovo Non aprite quella porta è quindi molto simile a quella dell’Halloween di David Gordon Green, che vedeva una non più giovane Jamie Lee Curtis/Laurie Strode confrontarsi nuovamente con la sua nemesi-babau Michael Myers. In questo caso, tuttavia, il personaggio di Sally Hardesty, vuoi per una obiettiva, minore “iconicità” della sua figura all’interno di questo specifico franchise, vuoi per una sceneggiatura che sceglie di favorire i personaggi più giovani, ha un ruolo di fatto molto marginale; il personaggio, infatti, appare soltanto (in modo abbastanza defilato) nella seconda parte del film, richiamato peraltro con un escamotage piuttosto meccanico. Al di là di una scelta che in termini di minutaggio sacrifica la figura dell’unica superstite della pellicola originale di Tobe Hooper, quello che tuttavia lascia perplessi è il modo in cui la sceneggiatura tratteggia e gestisce la sua figura; ciò, al netto di un’interprete (la già citata Olwen Fouéré, valida attrice di origini teatrali) che si sforza di darle consistenza meglio che può. Qualche sequenza di dialogo in più, per una Sally che intuiamo sofferente di stress post-traumatico, ma poco integrata nella trama e men che meno definita, avrebbe sicuramente giovato.
Vintage di maniera
La gestione del personaggio dell’”anziana” Sally, tuttavia, non è che uno dei tanti problemi di questo Non aprite quella porta, a cui probabilmente non hanno giovato le traversie produttive (col licenziamento dei registi designati Ryan e Andy Tohill, l’eliminazione del loro girato e il subentro in corsa di David Blue Garcia). Se si avverte il tentativo – specie nella consistenza “polverosa” e nel croma tendente al seppia della fotografia – di creare un look debitore al film di Hooper, ci si accorge presto che la veste non corrisponde alla sostanza. Nel 2022 bisogna rilevare che il vintage, nell’horror e non solo, è ormai un cliché abbondantemente abusato, un modello di confezione che in sé non dice nulla (al netto di una ipotetica, teorica parentela con un film, un filone o un periodo storico) sull’opera che si sta guardando. Se le prime sequenze del film di Garcia occhieggiano in modo evidente alla premessa del film originale di Tobe Hooper – sostanziando così il suo carattere di requel – lo svolgimento, ma soprattutto la regia priva di mordente, situano subito il tutto nel recinto del più anonimo horror di questi primi anni ‘20. La carica iconoclasta del primo The Texas Chainsaw Massacre (quella che fece innamorare persino Steven Spielberg) resta situata in altri e ben lontani territori.
Redneck horror
Va detto, tuttavia, che le premesse di questo anonimo, facilmente dimenticabile Non aprite quella porta non erano in sé malvagie. La sceneggiatura, sviluppata a partire dal soggetto di Fede Alvarez e Rodo Sayagues (creatori del ben più riuscito reboot del 2013 de La casa) sembra inizialmente sforzarsi di collocare la vicenda in un quadro sociale e antropologico ben definito: la caratterizzazione dei quattro giovani protagonisti, un po’ imprenditori e un po’ attivisti liberal, si contrappone al contesto brutalmente conservatore – e programmaticamente armato – del Texas rurale, incarnato dall’appaltatore/pistolero Richter (personaggio che pure sembra preannunciare, nella storia, un ruolo che poi non avrà). Un approccio diverso e meno di grana grossa al soggetto avrebbe potuto legare le azioni omicide di Leatherface (un ingiudicabile Mark Burnham) alla filosofia redneck abbozzata nelle prime sequenze dal personaggio di Richter e da quello dello sceriffo, turbati dall’ingenuo utopismo portato dai protagonisti; protagonisti che contemplano da par loro un personaggio (la Lila interpretata da Elsa Fisher) che svela a sua volta un evento traumatico del suo recente passato. Pure l’ambientazione da città fantasma, quasi western, meritava altro e più coerente trattamento; tutti elementi che il film accantona quando inizia la mattanza, girata peraltro così così, e puntellata da quei buchi narrativi che, in un contesto già scricchiolante, si perdonano meno facilmente. Il Faccia di Cuoio qui presente pare quasi (e in fondo lo è) un pallido imitatore di quello creato a suo tempo da Hooper: e ci si ritrova, non molto a sorpresa, a rimpiangere la origin story del Leatherface del 2017, forse il “nuovo” capitolo più convincente di una saga che ha vissuto (e vive) principalmente del ricordo del suo fondamentale prototipo.
Scheda
Titolo originale: The Texas Chainsaw Massacre
Regia: David Blue Garcia
Paese/anno: Stati Uniti / 2022
Durata: 83’
Genere: Horror
Cast: Alice Krige, Elsie Fisher, Nell Hudson, William Hope, Olwen Fouéré, Sam Douglas, Jacob Latimore, Jessica Allain, John Larroquette, Jolyon Coy, Mark Burnham, Moe Dunford, Sarah Yarkin
Sceneggiatura: Chris Thomas Devlin
Fotografia: Ricardo Diaz
Montaggio: Christopher S. Capp
Musiche: Colin Stetson
Produttore: Fede Alvarez, Pat Cassidy, Ian Henkel, Kim Henkel, Rodo Sayagues, Shintaro Shimosawa
Casa di Produzione: Bad Hombre, Exurbia Films, Legendary Entertainment
Distribuzione: Netflix
Data di uscita: 18/02/2022