UNA FEMMINA: UN’ESTETICA DIVERGENTE
Una femmina, diretto da Francesco Costabile, è una visione affilata come una lama e fluida come un film psichedelico, l’immersione in una tragedia antica che non ha bisogno di strafare per rendersi surreale, attingendo la sua essenza dall’assurdo della realtà stessa.
Introduzione
Si sono lette già molte buone recensioni su Una femmina di Francesco Costabile: cercando di non ripeterci, si proporrà qualche impressione segnata da un film così denso e intenso che si “assorbe” direttamente dallo schermo, sgretolando il suo stesso essere filtro. Perché Una femmina è uno di quei film in cui si esce dalla sala ancora storditi e ci vuole un po’ di tempo a tornare al nostro mondo, che poi è anche il suo. Qualcosa di simile potrà esservi capitato l’ultima volta che vi siete presi una cotta in metro, avete esagerato con del buon vino rosso, o siete andati a vedere la nuova sfida di David Lynch. Ma oltre a non essere assimilabile ad altri autori o generi, Una femmina è un film che pulsa vicino a noi: pone le sue radici nelle zone d’ombra della nostra terra, apparentemente rimosse, e le affonda nell’inconscio collettivo, travolgendo il nostro occhio per condurlo di fronte al vicino da lontano, e al lontano da vicino. Una femmina ha infatti l’odore del ricordo, ma il gusto della materia palpabile: recupera il viscerale dal mentale, l’ancestrale dal contemporaneo e l’empatia da una macchina, estensione visiva e sonora del mondo interiore della protagonista e, con essa, di un’intera memoria sociale.
Un mito tragico in chiave contemporanea
Una femmina ci conduce in uno spazio-tempo non definito, una dimensione universale tipica della tragedia antica, del mito, del sogno, nonché della struttura base della sceneggiatura, secondo le (pratiche) teorie di Joseph Campbell e Christopher Vogler, non a caso ispirate dagli archetipi di Carl Gustav Jung. Anche i personaggi del nostro film sono infatti frutto di una “sintesi” non di una ma di varie storie, afferenti agli ultimi 10-15 anni, tratte dal saggio—inchiesta di Lirio Abbate Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla n’drangheta, e condensate nel corpo di Rosa (Lina Siciliano), la protagonista. Il regista stesso dice infatti “ci sembrava limitante focalizzarci solo un un aspetto di una realtà molto vasta, il presupposto drammaturgico […] è quello di prendere una materia già raccontata dal punto di vista […] della rappresentazione cinematografica, ribaltare la visione, non spettacolarizzare una materia che si presta anche alla spettacolarizzazione ma affrontarla da un punto di vista interno, che è esclusivamente femminile”.
Gli archetipi, afferendo infatti al mondo interiore e dell’inconscio collettivo, secondo Campbell e Vogler reggono anche la struttura delle sceneggiature, nonché il percorso del personaggio, il “viaggio dell’eroe”, nelle sue varie tappe. Non a caso, per Rosa, questo percorso coincide con uno scavare a fondo, dentro di sé, verso la verità. Ma gli archetipi caratterizzano anche la triade di elementi alla base del movimento di ogni trama: il Padre, la Madre, il Figlio, intesi come simboli, e qui aderenti al ruolo dei personaggi stessi.
Quello del “Padre”, per Rosa acquisito, coincide con la figura dello zio Salvatore (Fabrizio Ferracane), che qui incarna non solo l’autorità dell’archetipo, ma anche il patriarcato, il sistema, il potere: un Dio, una parola, uno sguardo, da sfidare, ma mai la giustizia.
In generale le figure maschili, tranne pochissime, si fanno portatrici di “valori” tanto sanguigni e rigidi quanto sterili e contraddittori, mentre i tratti androgini della ragazza riflettono una forza interiore e morale in cui altri maschi vedono la presenza più potente. Nel micro mondo del piccolo paese calabrese, buco nero di corruzione in cui sprofonda anche la speranza di evasione e salvezza, Rosa diventa la luce a cui appigliarsi, ad esempio per Gianni (Mario Russo), a costo della vita stessa.
Ma non è l’unica figura femminile forte. La “Madre”, pur non biologica (Cetta, Francesca Ritrovato), rappresentata da Berta (Anna Maria De Luca), nonna di Rosa, qui è letteralmente la “Grande Madre”: archetipo connesso alla terra e, per Jung, alla grotta, luogo di nascita e morte, accogliente e divorante, ventre freddo che, nel film, coincide proprio con una matrona associabile alla “casa” stessa. Spesso è lei infatti a gestirla, sostituendosi alle figure maschili, ma senza renderla ancora nido, luogo d’equilibrio, calore e sicurezza. Non a caso l’“avvicinamento alla caverna più recondita”, il varco della seconda soglia, per Vogler è una delle fasi culminanti del viaggio dell’eroe, che si avvicina al pericolo più grande ma anche alla scoperta della verità, quella che l’inconscio fa di tutto per non farci vedere e questo film cerca di riportare a galla in Rosa, insieme alle conseguenze. Infatti il suo eroismo sta proprio nel cammino interiore ed emancipatorio verso la conoscenza di una verità che nasce ed è custodita, potremmo dire, proprio da quel ventre.
L’archetipo del “Figlio”, se nella struttura drammaturgica in genere è simbolo della ribellione, della rottura di un sistema afferente al passato, qui è tale per eccellenza ed è tale anche in quanto figlia: il film presenta il “femminile come elemento di rottura, di scissione, di poteri forti”, dice Costabile, rispetto a una struttura gerarchica rappresentata dal “Padre”, e con esso dalla mafia. Al contempo quest’ultima è subìta ma più o meno passivamente accettata da altre figure femminili: se Rosa è l’atto, e Cetta (la madre, Francesca Ritrovato), la parola, la zia Rita (Simona Malato) è il pianto da cui passa, e Berta lo stimolo che non riesce a rigettarlo dallo stomaco. Il conflitto di quest’ultima, come quello di altri personaggi, è riassunto nell’iconografia delle immagini, spesso composte da elementi in contrasto tra loro. Ad esempio la brutale uccisione di sua figlia, l’estromissione del suo proprio sangue, Cetta, è “lasciata alle spalle” della matrona visivamente, oltre che psicologicamente: nel passato l’assassinio è reso sfocato, in secondo piano, mentre i conati della donna, in primo, fanno da risonanza alla propria incapacità di opporsi; nel presente filmico è solo apparentemente dimenticato. Ma ogni immagine, ogni ricordo, trovano il loro perché in una propria geometria mai artificiale né casuale, ma naturalmente gravitante attorno al proprio centro emotivo.
Un’estetica audio-visiva sui generis?
Finché non guardiamo Una femmina, descritto spesso come film “sulla ‘ndrangheta”, ce ne aspetteremmo uno appartenente al filone di “questo genere”, associabile al gangster movie, il quale negli ultimi anni ha rinnovato una sorta di stile visuale proprio, con i suoi predecessori nel western, i conflitti prevalentemente (seppur non solo) maschili, e il color grading verdaceo, alla Gomorra, Suburra (le serie) e derivati. Ma possiamo dire che Una femmina, di stile, ne inauguri uno proprio, pur fiorendo dall’equilibrio di vari generi. Il gangster movie, ad esempio, è di sottofondo, ma viene ampiamente superato: intanto è la radice western a prevalere sulle versioni contemporanee, inoltre trasborda in altri generi, dal drammatico al surreale, a uno associato più che altro (ma come vedremo, non a caso) alla musica, il dark. Sono difatti presenti anche tracce noir (Rosa è pure – in parte e involontariamente – femme fatale, se consideriamo il destino di Gianni), oltre a una costante tensione thriller, sconfinante addirittura nell’horror. Pensiamo alle riprese della fatiscente abitazione di “famiglia”, sotto grigie nuvole: vista dal basso assomiglia ad una casa degli spettri ma, come altre configurazioni, non cade dello stereotipo proprio grazie alla sua commistione stilistica. L’aspetto spettrale qui è infatti (diversamente) assimilabile anche a un altro genere, solo teoricamente opposto ai precedenti: il neorealismo, in cui l’idea di “casa” spesso si confonde con quella di “maceria”.
Pensiamo alle visioni, dall’alto di una collina, del paese fantasma: gli scheletri delle abitazioni ne sostituiscono la funzionalità, così come le “rovine” causate dagli atti scellerati dei personaggi abbattono l’idea protettiva di “casa”. Come nel neorealismo, le macerie materializzano e simboleggiano il trauma di una memoria collettiva, seppur segnata da altri tipi di guerre. Anche la camera a volte squarcia le mura e unifica gli ambienti, attraversando gli interni come fossero set teatrali o spazi da sitcom: l’intento, però, se non è spettacolarizzare, è piuttosto andare a rivelare, rendere visibile la realtà, abbatterne i filtri.
Inoltre Costabile sceglie Lina Siciliano, “ragazza di vita” e “anima ferita” alla sua prima esperienza come attrice cinematografica, dando priorità alla “rabbia che le scorreva nelle vene” e al suo vissuto reale, così come i registi neorealisti. E anche qui la recitazione della giovane, insieme a quella degli altri attori – in parte già noti, in gran parte esordienti – è un elemento determinante la qualità del film, che riconferma la Calabria come scrigno palpitante di talento, nascosto nei suoi angoli più bui, se non disseminato per il mondo.
Ma se da una parte ravvisiamo una spontaneità interpretativa quasi iperrealistica, dall’altra il tessuto verbale, non meno potente del visuale, lo alimenta e, attentamente dosato tra toni, sonorità e ritmi, risulta poggiare su una consistenza tecnica, attoriale e drammaturgica che struttura in una propria originalità poetica la quale supera il puro realismo. Sicuramente eccentrica non è mai stucchevole, al contrario coinvolgente per genuinità, seppur nettamente differente, ad esempio, dal recente A Chiara (2021), di Jonas Carpignano.
Non a caso Costabile afferma: “Sono partito dalla realtà, dalla lettura della realtà, per poi fare un lavoro ulteriore di trasfigurazione”. Se, come nota Carpignano, la Calabria “non è un posto arcaico: ha le contraddizioni del mondo globalizzato”, Una femmina, muovendosi tra natura, cultura e/o tecnologia, ne è potenziale allegoria anche in tal senso. Costabile dice: “Ho cercato quindi di restituire l’immagine di una Calabria magica, ipnotica, territorio inconscio di qualcosa che è sommerso, che fatica ad emergere e a mostrarsi in tutta la sua bellezza”, e lui tenta di estrarla dalle possibilità tecniche e sperimentali del cinema.
Fin dalle prime inquadrature – piani ravvicinati, dettagli, immagini spezzate e in parte sfocate – l’occhio della videocamera di Una femmina cattura la nostra anima e la avvicina all’inconscio della protagonista, il cui mondo interiore si espande, potremmo dire, nello stesso immaginario estetico del film. Non a caso afferma Costabile: “Ho sentito la necessità di costruire un immaginario […] che potesse in qualche modo agganciare l’esperienza dello spettatore a livello inconscio. Cioè a me interessa che lo spettatore entri in empatia e che ci sia un aggancio emotivo sulla rimozione traumatica”. Nella storia del cinema il trauma, ovviamente, non sta solo nelle macerie fisiche, ma anche in quello che viene chiamato “ghost” del personaggio: l’evento passato, spesso infantile, che riemergendo mette in moto gli obiettivi del protagonista e caratterizza il tema del film stesso.
Siamo ancora nei primi minuti quando la camera ci porta nel fantasma di Rosa, dentro a occhi di bambina che, come in ogni trauma intuiscono, ma non capiscono del tutto cosa stia accadendo, in tal caso alla madre. Sia il ricordo dell’evento passato che il suo svolgersi nel presente sono resi, visivamente, letteralmente in modo non lucido, attraverso le immagini nebulose, disciolte e frammentarie, in cui non solo la coscienza di Rosa ma anche gli spettatori faticano a intravedere ciò che accade. Qui, prima delle parole, sono gli sguardi a parlare e comporre l’opera suggerendoci, insieme alle reazioni emotive dei personaggi e al lavoro minuzioso sui rumori, cosa stia succedendo.
La lente della camera, inizialmente, è spesso fuori fuoco o, presumibilmente, sottoposta ad altri filtri che alterano le visioni, sdoppiano le immagini, segmentano figure, le riflettono su specchi che sanciscono le tappe evolutive dei personaggi, spesso anche fisicamente immersi nella non-chiarezza della nebbia, come i frame sfocati, ma anche come Chiara. D’altra parte questa estetica ci riporta ad altri personaggi cinematografici diametralmente distanti, come Marie dell’antico Coeur Fidèle (1923), di Jean Epstein, che pure dilata la percezione di una protagonista ribelle scoprendo le stupefacenti (allora) potenzialità del nuovo linguaggio visivo. Ma le atmosfere di Una femmina, pur recuperando lo spirito delle tradizioni, il dialetto calabrese, la musica dei rituali, non richiamano solo quelle internazionali del cinefilo francese e, come è stato osservato su varie recensioni, del contemporaneo Lynch, ma anche di molti altri riferimenti visuali (oltre che filosofici): da Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij al Faust (2011) di Aleksandr Sokurov, se non a quello di Friedrich Wilhelm Murnau (1926).
Lo “sguardo” cinematografico di Una femmina, infatti, come nei suddetti film non è da intendersi solo visualmente ma, come quello onirico, è indissolubilmente legato al registro delle sensazioni, le quali si amplificano in altri sensi e immagini. I rumori, ad esempio, prendono spesso la forma del suono, e nei momenti più intensi rimbombano nell’atemporalità della tragedia, trascinandola nell’horroranche per suggestioni più carnali delle spettrali. Pensiamo alle urla strazianti, enfatizzate dallo scorrere di immagini in ralenti, di fronte a “pezzi” di animali: più che farsi splatter richiamano la cruda realtà, ma attraverso una configurazione, luce e colore, che ricordano un quadro tra Bosch, Bruegel e Courbet.
Secondo Epstein il ralenti, come l’accelerazione, nella sua “capacità di trasformare e superare la realtà” dell’ottica della camera, era il fulcro delle doti “animistiche” del cinema. Qui e in altri intensi momenti, infatti, insieme ai tempi si dilatano le emozioni, e l’impianto sonoro è materia vibrante, viva. La musica è trattata come elemento “organico” (F. Costabile) unificante e spirito primordiale che dà voce a quella interiore, silente, della protagonista.
Una femmina, infatti, porta il nostro occhio nel suo mondo così come il sonno porta l’anima nel sogno. In tal senso quest’opera, piccola avanguardia del mainstream, da una parte recupera il fine originario del cinema, restituendogli l’impatto al tempo stesso prelogico e tecnologico, senza cercare il nuovo in chissà che patina performativa, dall’altra, scavando e trovandolo in profondità, riacquista anche lo scopo del surrealismo: strappare i veli dell’apparenza dal loro nucleo vitale, portare a galla una personalità singolare (dell’opera) che nasce quindi da una matrice opposta all’esibizione della superficie. Se, come è stato notato, “la succitata commistione di generi e la precisione estetica […] smorzano la componente umana” ed “emotiva”, a nostro parere invece le esaltano, non solo favorendo la fusione tra sguardo dello spettatore, della camera e del personaggio, e proiettando la personalità di un inconscio (sia di un personaggio che di una terra) nello stile, ma forse anche sancendo un nuovo “genere”, non-genere, a sé stante: se da una parte bilancia in sé vari generi, dall’altra li oltrepassa. Rosa sarà pure una Laura Palmer calabrese, ma è forse anche qualcosa di più: più nuovo, e al tempo stesso più arcaico in quanto più eterno, autentico, palpabile… e meno classificabile. Si pensi al suo accostamento alla luna piena: solo a un primo sguardo catalogabile come dark, si dimostrerà essenzialmente un inno al femminile atipico e, al contempo, universale. Questa estetica unisce non solo passato e presente della storia, ma amalgama anche il nostro sguardo al suo tempo, facendo volare i 102 minuti del film in un batter d’occhio.
Conclusioni: uno sguardo femminile e divergente
Una femmina è di poche ed essenziali parole, come Rosa. Se “i morti non parlano” e il silenzio è violenza, Una femmina disintegra quest’ultima in modo silenzioso, alzando lo sguardo laddove le viene ordinato di abbassarlo. I personaggi più feroci son quelli che meno si sporcano mani e faccia: i più stimati in società, i più rispettabili in famiglia, quelli che le mani e la faccia le riservano all’intimo, all’impronunciabile, all’invisibile, o a chi vede come loro. Ma se lo sguardo è “parte integrante dei sistemi di potere e delle idee sulla conoscenza” (M. Sturken, L. Cartwright, 2001, 2009) questo film solleva le palpebre anche a noi. Accompagnandoci in mezzo a uno scempio di atrocità, psicologiche prima che fisiche, insidiose quanto invisibili, partorite dall’animo umano, attraverso la sua dimensione visionaria, a tratti psichedelica (da ψυχή = psychẽ “anima”, e δηλοῦν = dẽloun “rendere visibile, mostrare“), renderà visibile l’anima oscura di un’intera cultura. Quello di Una femmina, oltre a essere un punto di vista “ribaltato” in quanto femminile, è un mondo che non poteva essere reso se non surrealisticamente, perché capovolto: l’onestà paga, i principi sono alibi, i valori manipolazione, e la verità, fuoco insostenibile capace di far traballare le fondamenta di ogni sistema (sia sociale o psicologico), costa. Questo, dopotutto, è il motivo per cui da secoli la si brucia, trasforma in fandonia, fa passare per folle. Le femmine ribelli, qui, sono ritenute “infami”, indegne, “pazze”, paradossalmente, per essere le uniche a considerar pazzo il contesto in cui sono inserite, come pecore nere. Ma vengono definite “cavalli imbizzarriti”, esseri posseduti dal “diavolo in corpo”… le femmine ribelli, qui, sono streghe. Ma se la madre della protagonista verrà bruciata con l’acido, Rosa è una strega anomala che il fuoco lo accende, in più accezioni, dai roghi all’amore.
Eppure il profilo di Rosa, nel centro storico, è accostato a una madonnina luminosa, solo apparentemente in contrasto con la scena di passione, incarnando una purezza trasgressiva rispetto alle sovrastrutture.
Una femmina, a nostro avviso, non è tanto o solo un film sulle mafie, è un film il cui tema ultimo è la verità, la lotta tra visibile e invisibile, tra sopra e sotto, dicibile e indicibile e, di conseguenza, giusto e ingiusto, bene e male mai scontati. Perché più che cadere in stereotipi moralisti, qui, se il senso comune svela il suo marciume e le sue contraddizioni, Rosa supera le dicotomie generando una nuova etica, giovane, femminile, oseremmo dire femminista, una sorta di accidentale manifesto: la luce può essere dark, una santa punk, una donna uomo, il martirio vincente, la famiglia non di sangue, il valore dissacrante, il sublime nello scandalo, la morale umana fuori dalla morale umana.
L’unico uomo di famiglia rimasto vivo, Natale (Luca Massaro), riporta anch’egli, come le case, ma psicologicamente, i segni fisici di un “trauma”, sproporzionatamente più pesanti di quelli da lui stesso inflitti sulla roccia Rosa: nel corpo del ragazzo si addensano gli effetti di un massacro così lacerante da radere al suolo anche la dignità di essere/i umani, stravolgere di paura la fiducia nell’altro e mettere in discussione i presupposti di vittima e carnefice. Sono infatti altri conati (almeno per Berta che forse vorrebbe ma, come trasmette il suo corpo, non riesce proprio a liberarsi) che tornano a chiudere il cerchio maledetto di una tortura vorticosa, apparentemente senza limite, fine, scampo, ma più simile a un buco nero… finché Rosa non troverà il coraggio di ribellarsi definitivamente: cantare, togliere il velo, uscire dal cerchio, spezzandolo. Che fuori vi sia giustizia o questa sia solo un’utopia, non importa: una giovane femmina, una sopravvissuta, un saldo granello di sabbia nel vento della follia (dis)umana, come le donne del libro di Abbate sfalda un sistema, una gerarchia, una storia, una menzogna, un punto di vista, col coraggio di chi ha perso e subìto già troppo per aver paura. Il finale è un tripudio audiovisivo della lotta tra vita e morte, con una Rosa prima in posizione di cadavere sul letto, che poi prelude a una nuova nascita, accarezzando un’altra vita, in un altro ventre, di un’altra femmina, sotto una cicatrice sul suo grembo.