IL MALE NON ESISTE, IL REGISTA MOHAMMAD RASOULOF RACCONTA IL CINEMA SOTTO DITTATURA
Dopo aver vinto l’Orso d’Oro alla settantesima edizione del Festival di Berlino, il regista iraniano presenta alla stampa romana il suo Il male non esiste, per riflettere sul tema delle responsabilità personali soprattutto in condizione di dittatura.
“In alcune situazioni politiche, quando si decide di dire no, si è assolutamente consapevoli che ci saranno delle conseguenze. Ed è proprio questa la condizione all’interno della quale va a indagare il film di Mohammad Rasoulof. Certo, il compito del cinema non è quello di dare risposte ma porre solo domande. Per questo motivo, all’uscita dalla sala, siamo sicuri che in molti si chiederanno quale decisione avrebbero preso al posto dei protagonisti nelle loro stesse condizioni”. Con queste parole Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, accompagna e sostiene il regista iraniano nella presentazione del suo ultimo film Il male non esiste. Vincitrice dell’Orso d’Oro alla settantesima edizione del Festival di Berlino, questa pellicola, divisa in quattro capitoli e storie diverse, rappresenta un viaggio all’interno delle responsabilità personali nei confronti di una posizione etica e morale d’importanza fondamentale; decidere tra la vita e la morte di un altro essere umano partecipando attivamente all’esecuzione capitale.
Non tutti sanno, infatti, che in Iran la pena di morte è una consuetudine quotidiana; ma altrettanto sconosciuto è l’obbligo cui molti ragazzi, durante il servizio di leva, devono sottostare eseguendo in prima persona la condanna. Una richiesta barbara e disumana, che getta molti in uno stato di profonda prostrazione e conflitto con se stessi. Il sistema politico del paese, infatti, accetta un eventuale rifiuto ma, allo stesso tempo, lo punisce con una limitazione totale di tutte le attività che definiscono la vita civile. Privi di passaporto, questi dissidenti morali non hanno la possibilità di avere un lavoro, viaggiare, aprire un’attività. Unica possibilità è il ritiro in un esilio volontario all’interno di piccoli centri, abbracciando una vita fatta di semplicità ed essenzialità. Tutto questo, dunque, viene messo in scena nel film di Rasoulof con un’attenzione particolare proprio per i movimenti e i tormenti dell’anima dei singoli. Il film sarà distribuito in sala dal 10 marzo da Satine Film.
Il film è suddiviso in quattro episodi. Come sono state scelte le storie e, soprattutto, perché hai optato per questo tipo di struttura narrativa?
Mohammad Rasoulof: A causa delle limitazioni imposte dalla censura e della difficoltà di ottenere determinati permessi per girare, sono stato costretto a lavorare su quattro film brevi da far dialogare tra di loro in un racconto più ampio. La realizzazione di cortometraggi, infatti, è più semplice da un punto di vista burocratico. Per non rendere le mie limitazioni un freno creativo, dunque, ho trovato una via diversa da seguire. Veramente importante è stato scegliere delle storie in cui fosse messa in evidenza sia la condizione di chi ha scelto di sottostare alle regole imposte che quella di chi, invece, ha deciso di dire no a delle leggi ingiuste. Quando è arrivato il momento di definire la struttura di questo lungo racconto, poi, ho pensato di predisporre le vicende in una sorta di ordine alternato. Questo vuol dire che s’inizia con una storia di accondiscendenza per poi terminare con una in cui si mostrano le conseguenze della disubbidienza. In questo modo volevo creare un percorso unico, complesso e completo.
Nel film due storie vengono ambientante in location metropolitane e altre in situazioni più rurali. In che modo queste realtà diverse dialogano nella struttura sociale iraniana?
Nella realizzazione del film non mi sono concentrato sulle diversità sociali del paese. Piuttosto ho preferito avere una visione globale. In effetti, si prendono delle decisioni che vanno ben oltre le varie differenze di provenienza. Certo, le conseguenze del dissentire si fanno sentire costringendo le persone a una vita ritirata, quasi invisibile, all’interno di piccole realtà rurali. Ma questo riguarda l’effetto di una decisione personale. Ciò che volevo veramente mettere in evidenza in questo film è come, in dittatura, tutte le decisioni sono condizionate. Il problema è che ogni cosa diventa così normale e consueta che nessuno riflette più sull’esistenza di opzioni diverse.
In Iran l’evoluzione artistica si scontra inevitabilmente con la censura. Com’è possibile continuare un percorso culturale e creativo nonostante questa situazione?
La censura influenza vari aspetti della vita dell’uomo, andando ben oltre il campo puramente artistico. Il problema reale si presenta nel condizionamento della quotidianità. È come se si andasse a eliminare la realtà effettiva per sostituirla con un’altra completamente artefatta. In questo modo, passo dopo passo, la gente comincia a staccarsi pericolosamente dalla verità. Per quanto riguarda, poi, la vita dell’artista, è come se fosse costantemente sotto autocensura. Il più delle volte, infatti, consapevoli di dover fare i conti con questa situazione, ci si censura preventivamente. Quasi senza rendersene conto.
L’utilizzo della tecnologia nella realizzazione di un film quanto sta aiutando a rendere più libero il racconto e la produzione cinematografica?
La tecnologia ci sta aiutando a neutralizzare molte limitazioni. Dal mio punto di vista, come cineasta, ho la possibilità di realizzare i miei film in un modo diverso rispetto a quanto accadeva oltre venti anni fa. Oggi, infatti, posso girare le mie storie utilizzando anche un semplice cellulare. Il che vuol dire non solo risparmio da un punto di vista economico, ma anche aggirare non poche difficoltà nella richiesta dei permessi. Per questo motivo, dunque, mi concentro in modo particolare sull’individuazione di temi fondamentali e sul modo di sperimentare arte in modo diverso. In questo modo, infatti, riesco a non far pesare le difficoltà pratiche all’interno di tutto il processo creativo.
Il film si concentra in modo particolare sulla responsabilità personale di fronte a una scelta importante. In che modo, secondo te, questa tematica può ricollegarsi all’attuale situazione vissuta dall’Ucraina?
Non perdiamo mai di vista la responsabilità morale personale. Una volta fatto questo poniamoci una domanda: è giusto eliminare un’altra persona per il proprio interesse o per mantenere intatti i privilegi delle nostre esistenze? Riportiamo questo interrogativo anche nelle vite dei soldati. È giusto che questi ragazzi debbano ubbidire ciecamente a degli ordini che, probabilmente, per loro hanno ben poco senso? Come vedete, la relazione tra quello che sta accadendo tra i ragazzi in Iran durante il periodo della leva e quelli che oggi sono stati richiamati per invadere un altro paese è molto simile.
Qual è l’atteggiamento dell’Iran rispetto all’attacco della Russia?
Il regime iraniano ha un rapporto molto stretto con la Russia, tanto da considerarci come una loro colonia. Per questo motivo, dunque, l’atteggiamento della politica è di evidente sostegno. Del tutto diverso, invece, è l’atteggiamento delle persone. In molti, infatti, sentono una grande empatia nei confronti degli ucraini. In questo senso, dunque, abbiamo una spaccatura tra l’atteggiamento delle istituzioni e quello delle persone.