THE KINGDOM EXODUS
A 25 anni dalla seconda stagione della serie originale, Lars Von Trier riporta in vita il suo più noto prodotto televisivo con The Kingdom Exodus; il risultato è un’operazione gustosa e consapevole, che si situa da qualche parte tra il sequel, l’omaggio e il gioco metatestuale. Presentata alla Mostra del Cinema di Venezia 2022.
L’esodo che chiude il cerchio
Tra le visioni più attese dell’appena iniziata Mostra del Cinema di Venezia 2022 c’era sicuramente quella, fluviale, di questa The Kingdom Exodus, attesissima terza parte della serie creata nel 1994 da Lars Von Trier. Una visione che arriva contestualmente alla rivelazione del regista di essere malato di Parkinson, col conseguente, comprensibile ridimensionamento delle attività stampa nell’ambito della kermesse veneziana; un peccato, viene da dire (al di là dell’ovvio dispiacere umano – e artistico – che la rivelazione comporta) perché da discutere e da approfondire, su questo nuovo lavoro del regista danese, ci sarebbe tanto: anche e soprattutto col suo stesso autore. Abbiamo parlato di terza “parte”, piuttosto che di terza stagione, perché – come nel caso del recente revival di Twin Peaks, con cui questo lavoro presenta più di un punto in comune – questa serie arriva oltre un ventennio dopo le due stagioni di cui si compone quella storica, configurandosi come una sorta di sequel/omaggio/riflessione metafilmica più che come una vera e propria prosecuzione. Un “riprendere le fila” di un vecchio discorso che – anche in virtù dell’evoluzione subita nel frattempo dalla poetica del suo autore – si fa anche gustoso e autoironico “gioco”, con lo spettatore e con lo stesso universo della serie, che ammicca e decostruisce, radicalizzando l’evoluzione onirica che la serie aveva sperimentato già nella sua seconda stagione del 1997, senza tradirne il nucleo forte tematico.
La chiamata di Fratellino
Un po’ come aveva fatto Lana Wachowski con Matrix Resurrections, Von Trier utilizza l’espediente meta-testuale per avviare il plot di The Kingdom Exodus, inserendo la serie storica all’interno della diegesi e immaginando che questa sia stata girata in un vero ospedale, con medici e infermieri ad apparire come comparse. A muovere la vicenda è l’anziana Karen, sofferente di sonnambulismo; in uno dei suoi episodi di erranza notturna, occorso proprio poco dopo aver rivisto il DVD di The Kingdom, la donna arriva fino all’ospedale, chiedendo notizie della signora Druse e del personaggio di “Fratellino”, il figlio dall’aspetto mostruoso dell’infermiera Judith Petersen, che abbiamo conosciuto nella serie storica. Karen, che durante i suoi episodi di sonnambulismo manifesta poteri telecinetici, si convince che il fantasma di Fratellino, rimasto all’interno della struttura, sia sofferente a causa del risveglio di antiche forze, e dell’approssimarsi di un evento chiamato Esodo, legato sia alle anime luminose che a quelle oscure che da sempre popolano il Regno. La donna, con l’aiuto dell’infermiere Bulder, decide così di farsi ricoverare nell’ospedale, proprio nel reparto di neurochirurgia; proprio qui ha appena preso servizio come primario Stig Helmer jr., figlio del vecchio primario svedese che venticinque anni prima aveva guidato il reparto.
Rimandi e ritorni
In un certo senso è un peccato essere stati costretti a fruire in un inevitabile binge watching le cinque ore di The Kingdom Exodus, e non certo perché la serie di Von Trier sia risultata noiosa; piuttosto perché, al contrario, la sua densità e le tante suggestioni che offre chiamerebbero a una fruizione più ragionata, magari leggermente più centellinata. Perché The Kingdom Exodus, nel suo crescendo di ritmo episodio dopo episodio – fino a un ultimo capitolo che è un susseguirsi di surrealismo grottesco, con eventi tra l’apocalittico e il grand guignol – si assaporerebbe forse ancor meglio in modo più lento e graduale. Il regista, peraltro, mantiene fissi i richiami alla serie storica costituiti dal prologo – quello che illustra la storia del Regno – e dalla sigla, ovviamente rimontata con le immagini dei nuovi episodi; richiami che si estendono ai frequenti inserti nel girato di sequenze delle due stagioni originali, al taglio fotografico degli interni dell’ospedale (con quella predominante gialla che abbiamo imparato a conoscere) e soprattutto a un pugno di personaggi che richiamano esplicitamente quelli della serie storica: tra questi la già citata Karen, “alter ego” della Sigrid Drusse che aveva animato le vecchie vicende del Regno, il suo amico infermiere Bulder (fisicamente e narrativamente affine all’infermiere figlio di Sigrid) e ovviamente l’Helmer jr. interpretato da Mikael Persbrandt, che fa le veci di suo padre tanto nel ruolo quanto (soprattutto) nell’atteggiamento. Persino i due lavapiatti con la sindrome di Down della serie originale, che commentavano gli eventi principali, sono stati qui rimpiazzati da un nuovo inserviente affiancato da una curiosa entità robotica; ma, accanto a questi sostituti inseriti in funzione di vere e proprie “citazioni umane”, la serie presenta anche il ritorno di un pugno di personaggi dei vecchi episodi, tra cui l’inquietante medico Jørgen Krogshøj, la vecchia anestesista Rigmor Mortensen e la già citata Judith Petersen.
Un’evoluzione in senso “concettuale”
Chi abbia ancora in mente le due stagioni storiche di The Kingdom potrebbe far fatica, almeno nei primi episodi, a entrare in sintonia con la narrazione di questa The Kingdom Exodus, decisamente più erratica e frammentata, volutamente meno compatta rispetto alla serie che l’ha originata. In questo senso, regista e sceneggiatori approfondiscono qui le suggestioni – già virate al grottesco e al simbolico – presenti nella seconda stagione del 1997, e le rendono ancor più concettuali, mettendo fin dall’inizio in chiaro come ci si muova nei territori del sogno/incubo, in un universo che ha ormai perso gran parte dei legami con quello della quotidianità. Un universo in cui i dissidi tra il personale medico si risolvono con sentenze e pene comminate dentro la comunità ospedaliera, in cui uno stesso avvocato può rappresentare contemporaneamente entrambe le parti in causa in un contenzioso legale (anche se forse non proprio in modo imparziale), in cui l’esistenza del sovrannaturale, e la stessa natura “di confine” tra mondi dell’ospedale, non vengono più minimamente messi in dubbio. I legami col The Kingdom originale restano comunque molto forti, così come la scelta – pur portata avanti in modo molto decentrato e singolare – di riannodare alcuni dei fili interrotti al termine della serie storica (tra cui la sorte della giovane Mona, ragazza che aveva subito un danno cerebrale a causa di un errore medico del vecchio Helmer). In questo senso, l’operazione compiuta da Von Trier si avvicina davvero a quella di David Lynch col Twin Peaks del 2017, anche per come le due serie, di fatto, abbandonano i “generi” televisivi codificati che le avevano originariamente sorrette (la soap opera per la serie di Lynch e Frost, il genere medico in questo caso).
Satira e (controllata) follia
Nella sua ultima parte, in ogni caso, The Kingdom Exodus presenta un crescendo implacabile di eventi e atmosfere grottesche, in cui Von Trier sembra divertirsi a irridere quella parte della critica che lo considera misogino (accusa che probabilmente tornerà a far capolino anche stavolta), a farsi beffe – in modo magari discutibile, ma certamente coerente – di nuove e vecchie attenzioni linguistiche improntate all’inclusività, a contaminare l’horror con una personale lettura del surrealismo che prende a sberle anche i simboli borghesi più consolidati (qui il Natale: la vicenda è ambientata poco prima del giorno della vigilia). Su tutto, un mood da satira sociale ancor più spinto rispetto a quello della serie originale, tradotto nell’insistenza sullo sprezzante nazionalismo di Helmer jr. (radicalizzazione e insieme parodia di quello di suo padre); a dare maggior gusto e sostanza all’impasto, l’ingresso nel cast di un luciferino Willem Dafoe, e una conclusione in cui il carattere di gioco metafilmico della serie – ben studiato, consapevole e molto sardonico – viene fuori in modo ancor più esplicito e dirompente. Cinque ore di visioni e controllata follia, di cui comunque si resta grati, anche in virtù della fruizione (probabilmente irripetibile) su grande schermo.
Scheda
Titolo originale: Riget Exodus
Regia: Lars von Trier
Paese/anno: Danimarca / 2022
Genere: Horror, Fantastico
Cast: Willem Dafoe, Udo Kier, Mikael Persbrandt, Ghita Nørby, Lars Mikkelsen, Peter Mygind, Birgitte Raaberg, Birthe Neumann, Bodil Jørgensen, Henning Jensen, Ida Engvoll, Laura Christensen, Nicolas Bro, Nikolaj Lie Kaas, Palmi Gudmundsson, Solbjørg Højfeldt, Søren Pilmark
Sceneggiatura: Niels Vørsel, Lars von Trier
Fotografia: Manuel Alberto Claro
Montaggio: Jacob Schulsinger, My Thordal, Olivier Bugge Coutté
Musiche: Joachim Holbek
Produttore: Mark Denessen, Louise Vesth, Ida Harder Jeppesen, Lizette Jonjic
Casa di Produzione: Ginger Pictures, Zentropa Entertainments
Distribuzione: Movies Inspired