THE HOTEL
Allo scoppio della pandemia di Covid-19, le storie di un piccolo gruppo di cinesi, rimasti confinati in un hotel del nord della Thailandia, si intrecciano. Wang Xiaoshuai realizza con The Hotel una pellicola girata benissimo, in cui però i conti non tornano del tutto alla fine della visione. Presentato nel concorso della 17a Festa del cinema di Roma.
Qualcosa di completamente diverso
Una coppia, il Professor Yu (Ye Fu) e sua moglie (Qu Ying), che festeggiano il Capodanno Cinese, il cui matrimonio è arrivato probabilmente agli sgoccioli; una ragazza (Li Zonghan) che, prossima a compiere 20 anni, spinge sua madre (Huang Xiaolei) a rispettare una promessa fatta cinque anni prima; un anziano cieco (Dai Jun) che si accompagna con un assistente personale (Worrapon Srisai) con cui ha un rapporto ambiguo; un giovane (Li Zonghan) in attesa di prendere un volo. Tutti restano confinati in un hotel della città di Chang Mai. Siamo infatti ad aprile 2020, e la quarantena posta all’inizio della pandemia rende impossibile lasciare la struttura. Wang Xiaoshuai compone un’opera diversa rispetto alle sue pellicole precedenti (per esempio Le biciclette di Pechino, 2001, o Shanghai dreams, 2005 tra i titoli arrivati da noi) ma del resto diverse appaiono le condizioni in cui The Hotel è stato realizzato. Non potendo realmente rientrare in Cina a causa del lockdown, Wang realizza uno dei pochi film, (ancora) a oggi, in cui il Covid ha un ruolo centrale e fortemente tangibile (come per le mascherine mostrate nel finale di Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi).
Alla fine del mondo
The Hotel si caratterizza per i pochi attori in scena, ai quali si aggiunge l’ingombrante presenza della pandemia di Covid colta all’inizio della sua diffusione. Pur restando sullo sfondo, infatti, questa influenza le diverse situazioni accompagnandole attraverso le notizie della radio che filtrano dall’esterno, o ponendosi come oggetto di discussione (e ulteriore dermarcazione) tra i vari personaggi, come avviene tra il prof. Yu e sua moglie. Se quest’ultima ne è spaventata (come anche la madre di Sova), il professore, da buon uomo di raziocinio, ritiene che il virus non sia pericoloso (“È come un credo religioso, funziona se ci si crede”) e accusa la moglie di seguire la teoria del complotto. Le notizie fornite dalla radio, che si fanno sempre più critiche, sono anche il motore che scatena le inibizioni sessuali sia omo che etero delle storie portate avanti dalla sceneggiatura scritta dello stesso Fu Ye e Dai Ning.
Un microcosmo
Del resto, le giornate all’interno della struttura sono regolate da poche e ripetitive azioni, inevitabilmente destinate a deflagrare: conversazioni in camera o sul tetto dell’hotel e una vita che ha il suo epicentro nello spazio della piscina. Wang, che si avvale del bellissimo bianco e nero curato da Suparawee Victor Patravanic, insiste molto sui tempi morti, servendosi prevalentemente di inquadrature fisse da cui i personaggi entrano ed escono. Una fissità, quella di The Hotel, che non è nuova nella sua filmografia, e ricorda molto un certo cinema di Taiwan (anche se meno estrema rispetto ad autori come Tsai Ming Liang), idonea al microcosmo che si crea all’interno dell’hotel e al senso di apatia dettato da un confinamento obbligatorio. Il mondo esterno non viene mai inquadrato, ma viene continuamente filtrato dalle notizie via radio che giungono da Europa e California e dalla vista sulla città del tetto della struttura. Ma non importa, in fondo: l’hotel si trova in Thailandia, ma potrebbe essere ovunque perché, come osserva il Professor Yu, “esiste un luogo interessante, in questo momento?”.
Qualcosa non quadra
Cosa c’è allora che non va in The Hotel? Un difetto di logicità della trama nel dettare l’età di uno dei protagonisti in relazione a un evento cruciale avvenuto nel passato. Si tratta di una semplice svista? Di un errore di traduzione dei sottotitoli che accompagnano il film in lingua originale, o di qualcosa di realmente voluto dal regista? Wang sceglie infatti di raccontare in modo non lineare le storie che si sviluppano all’interno dell’hotel, cercando al contempo di aiutare apparentemente lo spettatore nel seguirle attraverso i numeri dei capitoli, che però non sono in ordine sequenziale. La mancanza di unità di tempo rende allora tutto un po’ ostico senza che ce ne fosse davvero bisogno, cosi come alcune delle storie raccontate non sembrano fondamentali all’impianto generale della pellicola. Che è anche un’occasione per riflettere sulla Cina, sul suo passato (la diaspora cinese in Thailandia; A Dong è nipote di un militante del Kuomintang e viene da Mae Saelong) e sul suo presente (il professor Yu è un dissidente sposato con una sua ex allieva perfettamente inquadrata nel sistema). Il colpo di scena finale del film però, in cui il silenzio dei personaggi spiega tutto, spazza via i difetti di un film che solo per il capitolo conclusivo vale la pena vedere.
Scheda
Titolo originale: Lv Guan
Regia: Wang Xiaoshuai
Paese/anno: Hong Kong / 2022
Durata: 112’
Genere: Drammatico
Cast: Ning Yuanyuan, Dai Jun, Huang Xiaolei, Li Zonghan, Qu Ying, Worrapon Srisai, Ye Fu
Sceneggiatura: Ning Dai, Ye Fu
Fotografia: Suparawee Victor Patravanich
Montaggio: Lee Chatametikool
Produttore: Yuan Zhang, Xuan Liu
Casa di Produzione: Hong Kong General Film Company Limited