OPPENHEIMER

OPPENHEIMER

Film complesso, stratificato, densissimo, Oppenheimer riassume tutte le tematiche del cinema di Christopher Nolan, innestandole in un contenitore (quello del biopic) solo apparentemente poco adatto alla sperimentazione. Il risultato è un’opera popolare e cinefila insieme, che probabilmente verrà ricordata come una pietra miliare nella carriera del regista.

Un’esplosione di cinema

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Un film di Christopher Nolan, quale che sia il tema, sarà sempre in certa misura un “evento”, sia per il pubblico generalista che per quello più prettamente cinefilo: il regista americano, nel corso degli anni, è infatti riuscito ad affrontare kubrickianamente (ci si passi il termine – e il paragone – arditi) un gran numero di generi e filoni, mantenendo forti, al cuore di ogni opera, alcuni temi portanti (la riflessione sul tempo, la percezione della realtà, la sua scomposizione e possibile rilettura). Se c’era tanta curiosità per Oppenheimer – al di là di un cast talmente infarcito di star da esserne quasi strabordante, al punto che è impossibile elencarle tutte – dipende principalmente dal fatto che Nolan affronta qui per la prima volta il genere del biopic: un filone apparentemente lontano dalla sua poetica, in cui il racconto degli eventi rischia di andare di pari passo col didascalismo, e l’inevitabile “traccia” narrativa non lascia in apparenza molto margine d’azione all’autore. Tuttavia, come già aveva fatto in molti film precedenti (si pensi alla sci-fi di Interstellar, o al war movie di Dunkirk) in Oppenheimer Nolan smonta e rimonta il genere parallelamente al racconto, moltiplica i piani temporali, i toni cromatici, persino i ritmi della narrazione. Ne viene fuori un’opera densissima, insieme affine e divergente dai suoi lavori precedenti; una specie di sperimentazione su quanto il cinema possa giocare con l’aspetto sensoriale – come in Dunkirk è importantissimo il lavoro sul suono e sulle musiche – e fornire una propria lettura di una vicenda in apparenza lineare. In apparenza, perché se c’è una cosa che il nuovo film di Nolan demolisce, in coerenza con l’impostazione narrativa dell’autore, è proprio la linearità. Ma non, come si potrebbe essere portati a immaginare, la leggibilità.

Tre linee temporali, un evento-spartiacque

Oppenheimer, Cillian Murphy in un momento del film
Oppenheimer, Cillian Murphy in un momento del film di Christopher Nolan

Il film prende spunto dal libro biografico American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, scritto da Kai Bird e dal compianto Martin J. Sherwin, che raccontava la vita e il lavoro dello scienziato universalmente noto come il padre della bomba atomica. Il periodo preso in esame dal racconto è in particolare quello che parte dall’ingaggio di Oppenheimer (un maiuscolo Cillian Murphy) nel Progetto Manhattan per opera del generale Leslie Groves (interpretato da Matt Damon): siamo nel 1942, e lo scopo è quello di battere sul tempo i tedeschi nella costruzione dell’arma di distruzione totale, quella che potrebbe “salvare il mondo rischiando di distruggerlo”; ma l’obiettivo non ufficiale è anche quello di tenere sotto controllo, e contemporaneamente lanciare un monito, all’attuale alleato sovietico, che già con tutta evidenza diverrà il prossimo nemico. Ed è proprio la proiezione verso il futuro, dapprima evocato, poi mostrato con sempre maggior insistenza – e fare sempre più pressante – uno dei leit motiv della narrazione di Oppenheimer: l’incubo di un possibile olocausto da un lato, racchiuso nelle raggelanti visioni e nei veri e propri incubi a occhi aperti del protagonista interpretato da Cillian Murphy, e le due linee temporali che gradualmente si affiancano a quella principale, non a caso cromaticamente da essa ben distinte nella splendida fotografia di Hoyte van Hoytema. La densità cromatica del presente, a rappresentare un mondo ancora precedente all’evento-spartiacque dello scoppio della bomba; i toni desaturati della frazione intermedia, quella che mostra il fisico messo sotto accusa in epoca maccartista, in una minuscola, metallica stanzetta; e infine il bianco e nero del mondo del 1959, quello in cui la cortina di ferro è definitivamente calata, ed è l’ambizione del Lewis Strauss interpretato (anche in questo caso magistralmente) da Robert Downey Jr., a farla da padrone, in un mondo ormai diviso in blocchi. In mezzo, un’esplosione che farà da spartiacque: non (ancora) quelle di Hiroshima e Nagasaki, che il regista lascia fuori campo – perché c’è un limite al filmabile, e paradossalmente anche a ciò che è necessario filmare – ma quella nel deserto del Nuovo Messico, col test Trinity che di fatto rappresentò il primo assaggio della potenza dell’ordigno nucleare.

Parole e immagini

Oppenheimer, Benny Safdie in una scena del film
Oppenheimer, Benny Safdie in una scena del film di Christopher Nolan

Dalla durata generosa (tre ore esatte) ma mai come in questo caso giustificata narrativamente e tematicamente, Oppenheimer è un film denso ma anche volutamente disuguale nel ritmo: un lavoro suddiviso tra una prima ora che accumula eventi, personaggi, sottotrame e temi – in una deliberata bulimia narrativa che richiede un’attenzione alta da parte dello spettatore, ma anche una buona disponibilità ad accettare i salti spaziali e temporali – e una frazione successiva che accelera, portando a compimento ogni singolo filo narrativo, dando consistenza ai personaggi e soprattutto seguendo la traduzione in realtà – insieme meno e più apocalittica di quanto era stato preventivato – delle sue visioni. Il tutto è filtrato da un unico sguardo, che è quello del personaggio eponimo; “sguardo” inteso non solo come percezione filtrata dall’organo della vista, ma anche quale sguardo interno, monologo interiore, ambizione spregiudicata mescolata all’angoscia sempre più presente. Infine pentimento, quando diviene evidente il lascito di morte del proprio lavoro, la spaventosa responsabilità di cui ci si è caricati e la scelta (im)possibile di salvare il salvabile. Nell’amara consapevolezza, anche, di quanto sia tardi. Tutto ciò, Nolan lo raggiunge con un quantitativo altissimo di dialoghi (Oppenheimer, di tutta la sua filmografia, è forse in assoluto in film più parlato) ma anche con quei primi e primissimi piani che dicono tanto sul protagonista e sulla sua evoluzione: aiutato in questo dalla prova eccezionale di Murphy, Oppenheimer si rivela un lavoro in perfetto equilibrio tra dialoghi e immagini, tra traduzione verbale di ciò che è impossibile da filmare (le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki) e plastica riproduzione visiva di ciò che le parole non possono rendere (l’angoscia e il tormento di qualcuno che è diventato, insieme, mostro e salvatore del mondo).

Una sintesi mirabile

Oppenheimer, Robert Downey jr. in una scena del film
Oppenheimer, Robert Downey jr. in una scena del film di Christopher Nolan

Con la sua complessità e stratificazione, con la costruzione ardita di un racconto che sa essere elaborato, impegnativo e denso, eppure assolutamente leggibile, Oppenheimer si candida così a segnare una sorta di spartiacque per il cinema di Christopher Nolan, al punto da racchiudere un po’ tutti i temi portanti della cinematografia del regista: la riflessione sulla percezione e sul tempo di Memento, l’ambizione divorante di The Prestige, l’angoscia esistenziale – anch’essa legata agli elementi del tempo e della memoria – di Interstellar, l’esplorazione fisica degli spazi della mente (e dei suoi labirinti) di Inception e Tenet. Il tutto racchiuso nel contenitore di un biopic, in un involucro che viene deliberatamente rovesciato e sovvertito, messo in crisi nelle sue basi eppure mai così esaltato nelle sue potenzialità; così come al massimo vengono esaltate le potenzialità di un cast corale in cui ognuno è messo nella casella giusta (ai nomi già citati aggiungiamo le due straordinarie presenze femminili di Emily Blunt e Florence Pugh, ma anche, tra gli altri, i volti di Alden Ehrenreich, Jason Clarke, Jack Quaid, Josh Hartnett, Matthew Modine, Rami Malek e Benny Safdie); e soprattutto quelle di un 70mm maestoso nella sua resa, da riprodurre e fruire su uno schermo più grande possibile e nelle condizioni più vicine possibili a quelle volute dal suo autore. Un saggio di ciò che l’analogico può ancora offrire, ma anche di come la straordinaria modernità del linguaggio possa (e forse debba) andare di pari passo col recupero, il riutilizzo e la valorizzazione di tecnologie che fondano la loro base nel passato. Pochi cineasti sanno esprimere questa sintesi con tanta compiutezza.

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Locandina

Oppenheimer, la locandina italiana del film

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Scheda

Titolo originale: Oppenheimer
Regia: Christopher Nolan
Paese/anno: Regno Unito, Stati Uniti / 2023
Durata: 180’
Genere: Drammatico, Biografico, Storico
Cast: Florence Pugh, Jason Clarke, Cillian Murphy, Matt Damon, David Dastmalchian, Gary Oldman, Casey Affleck, Emily Blunt, Kenneth Branagh, Rami Malek, Robert Downey Jr., Alden Ehrenreich, Benny Safdie, Dane DeHaan, Tony Goldwyn, Alex Wolff, Emma Dumont, Gustaf Skarsgård, Josh Hartnett, Matthew Modine, Matthias Schweighöfer, David Krumholtz, David Rysdahl, Devon Bostick, Dylan Arnold, Guy Burnet, Jack Quaid, Josh Peck, Danny Deferrari, James D'Arcy, James Remar, Josh Zuckerman, Louise Lombard, Michael Angarano, Olivia Thirlby, Scott Grimes, Tom Conti
Sceneggiatura: Christopher Nolan
Fotografia: Hoyte Van Hoytema
Montaggio: Jennifer Lame
Musiche: Ludwig Göransson
Produttore: Christopher Nolan, Charles Roven, Emma Thomas
Casa di Produzione: Syncopy, Universal Pictures, Atlas Entertainment
Distribuzione: Universal Pictures

Data di uscita: 23/08/2023

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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