STORIE DI CAVALLI E DI UOMINI
Raro esempio di film islandese che riesce a trovare una distribuzione in sala, Storie di cavalli e di uomini è per Benedikt Erlingsson un esordio di grande fascino e popolare genuinità, che potrebbe trovare l'unico ostacolo in certo malinteso “animalismo” serpeggiante nella cultura occidentale.
Natura, cultura e un nuovo equilibrio
In una comunità rurale islandese si intrecciano le storie di un pugno di esseri umani e dei loro cavalli: Kolbeinn e Solveg, innamorati l’uno dell’altro, la di lui giumenta Gràna e lo stallone Bruno; Vernhardur, amante della vodka, e il suo cavallo Jarpur, in visita su di un peschereccio russo dove non c’è vodka, ma c’è in compenso qualcosa di più pericoloso; Grimur in sella al suo cavallo, armato di un paio di pinze contro una recinzione indesiderata; Egill sul suo trattore, a difesa del filo spinato da lui stesso piazzato; Johanna, la sua cavalla Raudka, la voglia di libertà di quest’ultima e le relative conseguenze; il giovane latinoamericano Juan Camillo, la sua escursione nelle brulle terre islandesi, il suo smarrimento in una tormenta di neve, e la sua dura lotta per sopravvivere in sella al cavallo Vecchio Rosso.
Stupisce, per una volta in positivo, che un’opera ostica ma affascinante come questo Storie di cavalli e di uomini sia riuscita ad approdare nelle nostre sale. Lo stupore raddoppia se si pensa che l’esordio di Benedikt Erlingsson (già fortunato regista teatrale e di corti, e interprete de Il grande capo di Lars Von Trier) viene distribuito contemporaneamente a un altro film islandese, Rams – Storia di due fratelli e otto pecore: due opere diverse, ma entrambe testimoni della vitalità di una filmografia che, per la prima volta, sembra superare lo stretto recinto dell’art house e aprirsi a un pubblico più vasto.
E bisogna dire che il film di Erlingsson non è affatto cinema d’essai ermetico e chiuso in sé stesso, che non si ponga il problema del rapporto col pubblico: al contrario, siamo di fronte a un’opera popolare, principalmente perché popolare è la sua anima, il tessuto in cui è radicata, la realtà che descrive. Una realtà che è innanzitutto quella di una comunità che realizza nell’equilibrio con l’ambiente naturale, e nella simbiosi con la specie “eletta” del cavallo, il suo modo di essere, e uno dei principali collanti che la tiene insieme. Un dramma collettivo – inteso nel senso etimologico del termine – in cui uomini e cavalli sono alleati nella vita come nella morte, in cui le loro piccole, a volte grottesche storie si intrecciano componendo un affresco di assoluta lucidità. Non senza uno humour sottile, che ben rappresenta l’attitudine di questi individui, capaci di rispecchiare, fisicamente e simbolicamente, le loro gioie e dolori negli occhi, e nei comportamenti, dei loro animali.
Storie di cavalli e di uomini è visivamente affascinante, si affida in grande misura alle scenografie naturali, celebra la natura e la comunità umana, compresenti in un contesto che è di competizione, anche aspra ma leale. Il montaggio, la giustapposizione, l’incastro e la compenetrazione di piccole storie compongono complessivamente un affresco che esprime un’epica, con una compiutezza e una forza espressiva che vanno oltre la sommatoria delle singole storie. La regia di Erlingsson non tralascia il ritmo: il lirismo dell’affresco si accompagna a un incedere vivace, equilibrato dentro e fuori dalle vicende dei vari personaggi, puntellato da uno humour facilmente leggibile una volta accettatene le premesse. Con lucidità, e un’anima popolare mai rinnegata, il film celebra una comunità, le sue basi e la sua (r)esistenza, insieme a un rapporto con la natura che la borghesia occidentale, avvezza alle plastificate semplificazioni dell’ambientalismo e dell’animalismo moderni, necessita più che mai di riscoprire.
Proprio l’idea di un equilibrio competitivo tra uomo e natura, di uno sfruttamento sostenibile delle risorse che contempli (anche) il sacrificio di animali, è l’elemento che in Storie di cavalli e di uomini potrebbe – a torto – irritare più di uno spettatore. Il film di Erlingsson ha già avuto i suoi (paradossali) problemi con la censura, guadagnandosi il divieto ai minori di 14 anni proprio a causa di una sua significativa, cruenta quanto necessaria scena. Il fatto che una fetta di pubblico abbia introiettato una versione dell’animalismo che è insieme semplificazione e caricatura, tutta frutto della società dei consumi, potrebbe renderle indigesta la visione del film. È proprio il modello di convivenza uomo/animale che il film esprime – così realistico, atavico quanto vero – a rappresentare insieme il suo elemento di maggior fascino e un potenziale fattore di lontananza per alcuni (si spera non molti) spettatori.
Scheda
Titolo originale: Hross í oss
Regia: Benedikt Erlingsson
Paese/anno: Germania, Norvegia, Islanda / 2013
Durata: 81’
Genere: Drammatico
Cast: Charlotte Bøving, Halldóra Geirharðsdóttir, Ingvar Eggert Sigurðsson, Juan Camillo Roman Estrada, Atli Rafn Sigurðarson, Erlingur Gíslason, Helgi Björnsson, Kash Erden Baater, Kjartan Ragnarsson, Kristbjörg Kjeld, Maria Ellingsen, Sigríður María Egilsdóttir, Steinn Ármann Magnússon
Sceneggiatura: Benedikt Erlingsson
Fotografia: Bergsteinn Björgúlfsson
Montaggio: David Alexander Corno
Musiche: Davíð Þór Jónsson
Produttore: Egil Ødegård, Friðrik Þór Friðriksson, Christoph Thoke, Gudrun Edda Thorhanesdottir
Casa di Produzione: Leiknar Myndir, Filmhuset Gruppen
Distribuzione: PFA Films
Data di uscita: 19/11/2015