LO SPIETATO
Renato De Maria cerca con Lo spietato di rinverdire i fasti del poliziottesco che fu, raccontando nel contempo una parabola criminale col sapore della classicità: ma l'operazione, anche a causa di uno script debole, resta quasi esclusivamente esteriore.
Una parabola nera e vuota
Capita periodicamente, in modo più o meno regolare, che qualcuno provi a riportare in vita un filone che è stato in qualche modo “fondativo” del cinema di genere italiano, tanto trattato con sufficienza dalla critica d’epoca quanto oggetto, negli ultimi due decenni, di una generale (e anche un po’ troppo generica) rivalutazione: quello del poliziottesco. Se i tentativi fatti finora sono stati quasi interamente appannaggio del cinema indipendente, o di ex cineasti indipendenti ormai approdati al mainstream (un nome per tutti: i Manetti Bros., con titoli come Song ’e Napule e Ammore e Malavita), è raro che una produzione di dimensioni medie o grandi si cimenti direttamente col filone, cercando esplicitamente di replicarne gli stilemi: è il caso di questo Lo spietato, nuovo lavoro di Renato De Maria già distribuito per tre giorni in sala (l’8, 9 e 10 aprile) e ora approdato su Netflix. Un regista, De Maria, che nel recente passato aveva già dimostrato di essere interessato tanto alla storia del nostro cinema, quanto all’indagine della storia italiana tout court, attraverso il racconto di alcuni suoi protagonisti “minori”: titoli come La prima linea e il recente Italian Gangsters stanno lì a provare uno sguardo privilegiato verso la società italiana e i suoi mutamenti e rivolgimenti, costantemente documentati e filtrati attraverso l’occhio del cinema.
Dalla Milano Calibro 9 a quella da bere
Proprio nella ricerca di una coincidenza perfetta tra moduli espressivi – e cinematografici – d’epoca, e mood del periodo rappresentato (esplicitamente richiamato già dai titoli di testa) sta l’elemento caratterizzante di questo Lo spietato. Un noir in cui il regista torna a lavorare con Riccardo Scamarcio, protagonista e mattatore della più classica parabola di ascesa e caduta di un gangster: Santo Russo è qui un immigrato calabrese giunto con la sua famiglia nell’hinterland milanese negli anni ‘60, finito a intraprendere la carriera criminale quasi per caso. Arrestato ancora adolescente per un motorino rubato, il ragazzo conosce in cella il conterraneo Slim, con cui stringe un’amicizia che si prolungherà ben oltre il tempo trascorso dietro le sbarre. Una volta usciti, i due compiono una rapida ascesa nell’universo criminale di una città che sta modificando rapidamente il proprio volto: la metropoli raccontata in Milano Calibro 9 di Fernando di Leo si sta trasformando nella “Milano da bere” degli anni ‘80, gli stessi modelli criminali cambiano, il volto del malaffare si fa meno coreografico e più camaleontico, nascondendosi negli affari immobiliari e nei conti in Svizzera, trattando affari legali e illegali con la stessa spietata spregiudicatezza. Un cambiamento che il protagonista attraverserà proprio all’apice del suo potere, passando dalle rapine e dal contrabbando d’auto e ai sequestri di persona, per arrivare al più remunerativo traffico d’eroina.
“Spietati” mutamenti antropologici
Vorrebbe comporre un ritratto insieme tragico e intimo, De Maria, ricercando nella sua costruzione il registro epico (lo Scorsese di Quei bravi ragazzi è richiamato più di una volta) ma mantenendo contemporaneamente il suo sguardo puntato sul privato del protagonista, raccontato dall’onnipresente voice over. L’ascesa di Santo Russo segue le tappe del più classico racconto noir, narrato in flashback e scandito dal conteggio degli anni, contrappuntato dal volto di una città mutevole, che si adatta agli umori dell’umanità che la abita, insieme alle sue automobili e alle sue musiche: dal rock progressivo alla disco di Self Control di Raf, dalle giacche di pelle e dai pantaloni a zampa d’elefante ai completi sgargianti che prefigurano lo yuppismo degli anni ‘80. Il personaggio interpretato da Scamarcio passa attraverso questa evoluzione in modo quasi automatico, tra un omicidio (o “miracolo”, come lui stesso li chiama), un sequestro e una nuova fiamma: il limite principale di questo Lo spietato è di fatto quello di non aver saputo (o voluto) organizzare le gesta del protagonista in un insieme coerente, in una narrazione che sia caratterizzata da una sua coerenza interna e da un vero climax. In modo un po’ paradossale, per un film che vorrebbe restare attaccato al suo protagonista, sviscerandone motivazioni e fantasmi personali, il personaggio di Scamarcio si rivela privo di reale statura drammatica, impermeabile a qualsiasi evoluzione: in questo senso, l’espediente della voice over sembra un mero surrogato per i limiti di uno script che non va oltre il lato esteriore e iconografico del personaggio.
Epica mancata
De Maria cura in modo attento la ricostruzione d’epoca, si affida a una fotografia efficace e in linea con le atmosfere evocate dalla storia (opera di Gian Filippo Corticelli), cerca di recuperare il mood più ruspante e fisico del cinema di genere anni ‘70 – con poche ma ben piazzate sequenze d’azione – adattandolo a un racconto più articolato ed esteso nel tempo. La sua, al netto delle intenzioni, resta tuttavia un’operazione quasi esclusivamente esteriore: manca la statura tragica che era propria anche di molte figure di gangster del poliziottesco che fu, ma soprattutto manca un forte filo conduttore che leghi a sé le vicende dei protagonisti, e queste ultime, nel loro complesso, alle più generali evoluzioni della storia. La stessa figura del sodale Slim è trattata in modo meramente esornativo, “spalla” criminale che si limita per gran parte del film a fare presenza, più che personaggio a tutto tondo (e, in questo senso, l’evoluzione dell’ultima parte del film, che evitiamo di svelare, appare ancor più gratuita e ingiustificata). Il sottofondo sentimentale della storia, poi, si affida in modo quasi esclusivo – e con risultati poco verosimili – al prototipo della donna subalterna (incarnata dalla moglie del protagonista, interpretata da Sara Serraiocco) e a un’improbabile figura di amante che, col volto di Marie-Ange Casta, brilla per inconsistenza e scarsa credibilità.
Una scrittura più attenta avrebbe sicuramente giovato a questo Lo spietato, ispirato liberamente al romanzo Manager Calibro 9 di Pietro Colparico e Luca Fazzo, a sua volta racconto delle gesta di un vero gangster/imprenditore della Milano di quegli anni. De Maria, regista dotato quanto spesso mancante di quel quid capace di generare empatia e partecipazione, si affida in modo quasi esclusivo a uno Scamarcio che, sorretto da una debole sceneggiatura, fa comunque il suo con professionalità, cercando di caratterizzare al meglio un personaggio dal non facile approccio. Resta comunque, nel novero di quelle opere più recenti tese a portare (nelle intenzioni) nuova linfa all’italico cinema di genere, un’occasione sostanzialmente sprecata.
Scheda
Titolo originale: Lo spietato
Regia: Renato De Maria
Paese/anno: Italia / 2019
Durata: 111’
Genere: Drammatico, Noir, Poliziesco
Cast: Riccardo Scamarcio, Alessio Praticò, Sara Serraiocco, Ignazio Oliva, Alessandro Tedeschi, Adele Tirante, Marie-Ange Casta, Angelo Libri, Caterina Russo, Fabio Pellicori, Giuseppe Percoco, Michele De Virgilio, Pietro Pace, Sara Cardinaletti
Sceneggiatura: Federico Gnesini, Renato De Maria, Valentina Strada
Fotografia: Gian Filippo Corticelli
Montaggio: Clelio Benevento
Musiche: Riccardo Sinigallia, Emiliano Di Meo
Produttore: Angelo Barbagallo, Matilde Barbagallo
Casa di Produzione: Bibi Film, Indie Prod, Rai Cinema
Distribuzione: Nexo Digital, Netflix
Data di uscita: 08/04/2019