DARK HEART OF THE FOREST
Presentato nella sezione Surprise del Torino Film Festival 2021, nella sua speciale selezione online, Dark Heart of the Forest è un esordio ricco di stile e contenuti per il regista belga Serge Mirzabekantz, che nel rappresentare il viaggio fuori dal mondo umano dei due giovani protagonisti mette in scena un’inquieta ricerca della genitorialità e del passaggio all’età adulta.
Fuori dal mondo, dentro la vita
Difficile trovare punti di riferimento stilistici o estetici per un film come Dark Heart of the Forest, originale e personale esordio dietro la macchina da presa per il belga Serge Mirzabekantz, una laurea in chimica e un passato come regista teatrale. Anzi, stupisce proprio apprendere del background teatrale del regista (non più giovanissimo: classe 1975) in virtù dell’approccio squisitamente cinematografico di questo suo esordio: un film d’immagini, quadri fissi e atmosfere prima ancora che di recitazione – ma i due giovanissimi protagonisti, Elsa Houben e Quito Rayon Richter, funzionano alla perfezione – illuminato dalla fotografia straordinariamente espressiva (e incredibilmente “leggibile”, anche nelle scene buie) di Virginie Sudej. Sono proprio le immagini della foresta che circonda la residenza dei due ragazzi protagonisti, vero e proprio personaggio aggiuntivo della storia – sembra un luogo comune ma stavolta non lo è – a guidare lo spettatore nel viaggio di Nikolai e Camille, adolescenti alla ricerca di una genitorialità di cui loro non hanno potuto godere.
Un cuore nero, ma accogliente
Dark Heart of the Forest si apre proprio con la foresta, e con una lenta panoramica verso il suo “cuore nero”: il commento sonoro, che sembra sottendere a un’atmosfera horror, tornerà a più riprese nel film, a rappresentare la doppia valenza del luogo come spazio di crescita e nuove possibilità, e come fonte di pericolo che può mostrare denti affilati (come la tagliola che Nikolaj pone, in una scena, per cacciare un coniglio). La foresta ha valenza fiabesca, per due personaggi che vi si perdono per (ri)trovare se stessi: e in fondo, a ben vedere, il film di Serge Mirzabekantz non è che una fiaba contemporanea sui generis, che proprio delle fiabe mantiene la doppia identità crudele e pedagogica. Nikolaj nella foresta ci è nato: i suoi genitori, che il ragazzo non ha mai conosciuto, lo hanno abbandonato alla nascita ai piedi di un albero. I boschi intorno alla casa di accoglienza in cui è cresciuto sono, in fondo, la sua vera casa. Camille, invece, sta scappando da un mondo umano che le ha chiuso in faccia, prima del tempo, tutte le porte; da una madre mai conosciuta a un padre che non la vuole, fino a un uomo adulto che l’ha messa incinta per poi costringerla ad abortire. L’incontro tra i due sarà teso, ma palpitante di possibilità.
La moltiplicazione degli sguardi
Il film di Mirzabekantz è diviso in tre frazioni, le prime due delle quali raccontano la stessa storia attraverso gli occhi dei due protagonisti: l’incontro tra i due, la loro fuga e il loro primo rapporto sessuale (lasciato in gran parte, come quasi tutti gli eventi importanti del film, fuori campo). I due segmenti, tuttavia, non hanno una durata analoga, laddove il secondo – quello che segue gli eventi dal punto di vista della ragazza – si limita a riempire i vuoti (voluti) lasciata dalla vicenda raccontata invece attraverso lo sguardo di Nikolai. La terza frazione è quella che mette in scena il “punto di vista”, in fieri, del bambino che sta per nascere, frutto dell’unione e del confuso progetto di vita elaborato dai due giovani. Una scelta, quella di una suddivisione razionale e complementare (anziché speculare) delle storie – in una moltiplicazione di punti di vista che, stavolta, significa innanzitutto nuove narrazioni – che allontana il film dal modello debitore a Rashomon delle visioni alternative: qui, anziché rischiare la ripetizione (e la conseguente perdita di attenzione dello spettatore) si sceglie l’incastro funzionale dei due racconti. Un modo originale di affrontare il vecchio motivo dei punti di vista multipli.
Umano, non umano
In Dark Heart of the Forest ci sono simbologie – in primis quella della stessa foresta, e in particolare di quell’albero che brucia, nel finale, con la doppia valenza di una distruzione e di una rinascita – ma soprattutto c’è il vissuto concreto, e doloroso, di due personaggi che cercano il loro posto in un mondo adulto che non è stato capace di accoglierli. La componente più emotiva della storia, più che dai dialoghi (ridotti all’essenziale) emerge dalla recitazione dei due protagonisti, che immediatamente trovano una loro complementarità: dal fare più cupo e ombroso del personaggio di Nikolai a quello più esplicitamente fragile di Camille, che esplode in alcune singole sequenze (la visita a casa dell’ex, la telefonata col padre). Sullo sfondo, una fuga impossibile verso una società non umana, nel sogno utopico di un contatto “puro” con una natura che si vorrebbe capace di abbracciare laddove il mondo umano ha invece respinto. Il contatto con la propria natura umana, e sociale, per i due protagonisti potrà essere evitato solo temporaneamente, rimandato in attesa di un passaggio all’età adulta (e alla genitorialità) che significa ingresso in quel mondo che non è stato in grado di dar loro un posto. Un ingresso temuto, ma in fondo anche agognato.
Scheda
Titolo originale: Le coeur noir des forêts
Regia: Serge Mirzabekiantz
Paese/anno: Francia, Belgio / 2021
Durata: 104’
Genere: Drammatico
Cast: Charles François, Elsa Houben, Quito Rayon Richter
Sceneggiatura: Benjamin d’Aoust, Patrick Delperdange, Serge Mirzabekiantz
Fotografia: Virginie Surdej
Montaggio: Julie Naas
Musiche: Cyrille de Haes, Margaret Hermant, Manuel Roland
Produttore: Anthony Rey, Ron Dyens
Casa di Produzione: Hélicotronc, Sacrebleu Productions