PROFONDO ROSSO
Tornato in sala in versione restaurata 4K, con la distribuzione di Cat People, Profondo rosso non è solo il film-manifesto del cinema di Dario Argento, e più in generale del giallo all’italiana: è anche uno di quei film che non ci si stancherebbe mai di guardare, per la felicità delle sue intuizioni e la bellezza formale di una costruzione che ancora oggi, checché se ne pensi, è perfettamente in grado di spaventare, inquietare e affascinare.
Un manifesto scarlatto
Il ritorno in sala di Profondo rosso, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita originale, è l’occasione per tornare a riflettere (e su un’opera del genere, probabilmente, le riflessioni e le speculazioni non saranno mai abbastanza) su uno dei classici del cinema italiano del dopoguerra, non solo di genere. Tra i capolavori riconosciuti di Dario Argento – solo Suspiria, per gli argentiani DOC, gli contende il titolo di miglior pellicola del regista romano – e film-manifesto di tutto il giallo all’italiana, il film rappresenta in realtà un’opera di cesura, il “ponte” tra il periodo più thriller del regista (la “trilogia degli animali” costituita da L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio, non volendo contare l’atipico Le cinque giornate) e la successiva fase horror avviata proprio da Suspiria, e poi proseguita con Inferno. Proprio in questo senso, la scelta del titolo – che, com’è noto, andò a sostituire quello di lavorazione, che era La tigre dai denti di sciabola – appare più che mai azzeccata e suggestiva: non più i lunghi e fantasiosi titoli dei film precedenti, con tanto di presenza del nome di un animale (formula poi copiata da altri thriller nostrani dell’epoca), e non ancora le secche titolazioni di una sola parola dei lavori successivi (tradizione che Argento manterrà per tutto il successivo decennio e oltre). Solo due evocative parole, che nel finale diventano descrizione letterale e “specchio” (altrettanto concreto) di ciò che vediamo sullo schermo; il tutto per un’opera che racchiude e sistematizza le intuizioni delle precedenti, in un contenitore che inizia ad abbracciare esplicitamente il fantastico e il favolistico. Senza perdere un grammo della deliberata cattiveria mostrata nei lavori precedenti.
Il delitto e il quadro
Riportiamo la sinossi solo per dovere di cronaca: il pianista americano Marc Daly, insegnante di jazz al conservatorio, assiste dalla strada al brutale assassinio di Helga Ullman, una parapsicologa che si trovava in città per un ciclo di conferenze. Corso nell’appartamento della donna, l’uomo può solo constatarne il decesso, mentre scorge da lontano una figura in impermeabile che si allontana rapidamente. Aiutato dalla giornalista Gianna Brezzi, che spera nello scoop della vita, Marc inizia a indagare sul delitto; i due scoprono che la donna, poco prima, aveva tenuto una conferenza durante la quale aveva captato, tra il pubblico, una presenza malvagia. L’indagine dei due rivela che l’omicidio è legato a una misteriosa nenia infantile e a un’imprecisata villa, ma la situazione si fa subito estremamente pericolosa: tutte le persone che aiutano Marc e Gianna finiscono vittima del killer, che sembra capace di prevedere tutte le loro mosse. La verità, forse, si nasconde in uno sfocato ricordo della notte del delitto; una sorta di visione subliminale (un quadro, o forse qualcos’altro) che Marc non riesce a mettere a fuoco.
Un compendio di visioni
Come si diceva in apertura, Profondo rosso ha tutti i crismi di un’opera di cesura, ma anche di un lavoro riassuntivo di tutte le suggestioni che il regista aveva disseminato nei film precedenti: c’è la riflessione sullo sguardo e sulla sua capacità di trattenere un dettaglio rivelatore, che tuttavia il cervello non è in grado di elaborare e riempire di senso a livello conscio (elemento già presente in L’uccello dalle piume di cristallo, ed elevato addirittura a visione trattenuta post-mortem in Quattro mosche di velluto grigio); c’è il testimone casuale, spesso proveniente dall’estero (qui Marc è americano, e intuiamo non si trovi in Italia da molto) che finisce nel mirino dell’assassino, e tuttavia non riesce a sottrarsi a un misto di fascinazione e repulsione per le sue azioni, e le sue motivazioni; ci sono gli scorci rivelatori del mondo del killer, che testimoniano la sua mente deragliata (qui la magistrale sequenza dei titoli di testa – poi oggetto di ripresa e leggere variazioni, più avanti – con la macchina da presa che accarezza i ninnoli infantili e le biglie, i pupazzi e i coltelli, emblemi di un delirio che ha perso qualsiasi contatto con l’umana razionalità); ci sono le soggettive che ci fanno assumere il punto di vista del killer – con la sua carica repulsiva ma anche fatalmente attrattiva – e gli omicidi estremamente grafici, in cui il dettaglio macabro – lungi dall’essere gratuita esibizione grandguignolesca – assume la debordante consistenza della manifestazione di un incubo a occhi aperti.
L’abbraccio del delirio
È proprio questa coerenza di contenuti e messa in scena, voluta da Argento in contrapposizione all’impianto più realistico che il co-sceneggiatore Bernardino Zapponi avrebbe voluto dare al film, a fare di Profondo rosso un’opera riassuntiva delle suggestioni cinematografiche del primo Dario Argento: qui, a partire dall’ambientazione – una metropoli fantastica ricostruita con esterni romani e torinesi, mescolati senza soluzione di continuità a luoghi creati ad hoc (il famoso Blue Bar) – siamo in un universo iperrealistico che presto abbandonerà qualsiasi legame con la realtà concreta, abbracciando il delirio e l’irrazionale. La macchina da presa sempre mobile, coi morbidi piani sequenza che scrutano e avvolgono i personaggi (anche nelle sequenze più apparentemente tranquille) suggerisce da subito la consistenza dell’incubo. Sono pochi, e brevi, i momenti più realistici, che spesso assumono i toni della commedia – in gran parte demandati ai dialoghi tra i due protagonisti David Hemmings e Daria Nicolodi; in gran parte del film, la messa in scena fa assumere allo spettatore l’ottica di un fantasmatico voyeur, prigioniero di un incubo che lo incatena crudelmente alla visione, eppure lo attrae irresistibilmente. La celeberrima colonna sonora dei Goblin – integrata dalle precedenti composizioni jazz di Giorgio Gaslini – aggiunge fascino perturbante e contrappunta in modo perfetto le immagini: si pensi solo alla lunga sequenza che vede Hemmings esplorare la villa, e all’effetto ben più convenzionale e rassicurante – e meno capace di instillarsi sottopelle – che la scena avrebbe assunto se non fosse stata accompagnata dal martellante progressive rock della band romana. In quasi tutti i 127 minuti del film di Argento, lo spettatore vive una dimensione onirica che invade e si sovrappone al quotidiano: l’assassino è una presenza oscura e onnisciente, che apre porte, penetra in case e ascolta segreti a suo piacimento. E la sua catartica fine – non crediamo, qui, di fare un grande spoiler – riflette la consistenza gloriosamente delirante delle sue azioni.
Quell’oscura gioia
Non ci si stancherebbe mai, di rivedere una pellicola come Profondo rosso, non solo film-manifesto del cinema di Dario Argento, e più in generale del filone del thriller all’italiana, ma anche opera capace di generare quell’autentico entusiasmo cinefilo che qualsiasi appassionato della settima arte (e non solo di horror) sa riconoscere e far suo: ogni inquadratura e ogni movimento di macchina, per quanto noto e ormai mandato a memoria, (ri)genera quel piacere della visione – quel sano godimento dello sguardo – che accompagna ogni classico che si rispetti. Così, un’opera pensata per spaventare – e ancora perfettamente in grado di farlo, con un livello e una qualità della paura sconosciuti a tanto cinema horror, italiano e non, successivo – diviene fonte di un sentimento diverso eppure complementare: di quell’inesausto piacere, cioè, che si prova nel trovare e riconoscere una manifestazione artistica che si sente nelle proprie corde. Una sensazione valida anche, e soprattutto, quando questa manifestazione abbraccia il lato oscuro dell’animo umano, i sentimenti più innominabili e le pulsioni più animalesche. Necessarie, e necessariamente da convogliare attraverso il cinema, e più in generale l’arte. Se si pensa alle vicissitudini produttive che ebbe il film, e ai contrasti che (come spesso accade per i classici) ne accompagnarono la realizzazione, c’è da rallegrarsi che Profondo rosso sia stato proprio questo: che Argento, cioè, abbia modificato, e in parte stravolto, l’impianto realistico che Zapponi voleva dare allo script, che la colonna sonora di Gaslini sia stata in gran parte abbandonata (compresa la prima versione, “orrenda” secondo il regista, di quella che poi sarebbe diventata la celeberrima nenia infantile presente nel film) in favore di un misconosciuto gruppo progressive rock che si preparava a entrare nella leggenda. I capolavori, spesso e volentieri, nascono proprio così.
Locandina
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Scheda
Titolo originale: Profondo rosso
Regia: Dario Argento
Paese/anno: Italia / 1975
Durata: 127’
Genere: Horror, Thriller, Giallo
Cast: Daria Nicolodi, Fulvio Mingozzi, Gabriele Lavia, Lorenzo Piani, Salvatore Puntillo, Aldo Bonamano, Clara Calamai, Dante Fioretti, David Hemmings, Eros Pagni, Furio Meniconi, Geraldine Hooper, Giuliana Calandra, Glauco Mauri, Jacopo Mariani, Liana Del Balzo, Macha Méril, Nicoletta Elmi, Piero Mazzinghi, Piero Vida, Vittorio Fanfoni
Sceneggiatura: Bernardino Zapponi, Dario Argento
Fotografia: Luigi Kuveiller
Montaggio: Franco Fraticelli
Musiche: Goblin, Giorgio Gaslini
Produttore: Salvatore Argento
Casa di Produzione: Rizzoli Film, Seda Spettacoli
Distribuzione: Cat People
Data di uscita: 10/07/2023